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| Cristogramma di San Bernardino, Neri di Bicci, San Francesco di Prato, 1424 |
Bernardino era già allora un fenomeno nazionale. Non aveva alle spalle alcun “ufficio stampa”, e nemmeno la fortuna di internet, ma riempiva piazze come fosse una rockstar medievale. La sua voce era potente, la sua presenza magnetica, e soprattutto parlava una lingua moderna: niente teologie astratte, niente prediche fumose. Parlava dei problemi veri della gente. Usura, discordie familiari, imbrogli nei commerci, lusso sfrenato, invidie tra famiglie rivali. Le stesse cose che oggi riempiono i talk show, con la differenza che Bernardino non aveva bisogno di urlare per farsi capire.
La chiesa di San Francesco, a Prato, lo accolse per una serie di predicazioni quaresimali. Immaginiamola piena all’inverosimile: lanaioli con le mani ancora impolverate di fibra, donne con lo scialle ben stretto, commercianti in bilico tra devozione e timore di essere messi alla berlina dal frate, confraternite, artigiani, curiosi. Tutti stretti, tutti in ascolto. Una città raccolta in un unico sguardo.
Ma il vero colpo di genio Bernardino lo giocò con un’immagine. Lo chiameremmo “branding”, oggi, e lui fu davvero il primo a capirne il potenziale: il cristogramma IHS, le prime lettere del nome di Gesù in greco, inscritte in un sole dorato dai raggi fitti e luminosi. Lo mostrava alla fine delle prediche come un vessillo di pace, un modo per unire ciò che le fazioni e l’ambizione dividevano. Una specie di logo spirituale: semplice, riconoscibile, immediato. Più efficace di qualunque discorso politico.
E non era un simbolo astratto: Bernardino lo portava con sé, lo mostrava alla folla, lo faceva baciare, lo esponeva sulle porte delle case come antidoto alle tensioni cittadine. A Prato quel pannello c’è ancora, e la tradizione lo attribuisce a Neri di Bicci, il pittore fiorentino che per i Francescani lavorò spesso. Sta oggi vicino all’altare di San Francesco come una reliquia di comunicazione ante litteram, un pezzo di storia vissuta — non tanto perché “antico”, ma perché racconta un momento di partecipazione collettiva quasi dimenticato.
Pensiamoci un attimo: un frate che solleva un simbolo luminoso e lo offre alla folla come rimedio contro odi, corruzione e disordine urbano. È bello ricordare che anche il Medioevo – quello vero, quello senza retorica – sapeva produrre momenti di autentica innovazione sociale. Bernardino non era uno che giudicava dall’alto: era uno che entrava nel vivo della città, che sapeva parlare alla pancia e alla testa. Un “Savonarola ante litteram”? In parte sì, ma con molta più grazia e molta meno propensione a bruciare il mondo intero per farlo “più puro”. Il suo scopo non era la punizione, ma la riforma morale e civile.
E la città, in quelle settimane, cambiò davvero ritmo. Ci sono cronache che ricordano conversioni improvvise, riconciliazioni famigliari, restituzioni di denaro usurato, persino qualche guarigione ritenuta miracolosa. Non importa stabilire se tutti questi racconti siano cronaca o ricamo: ciò che conta è capire quanto forte fosse la percezione che qualcosa stava accadendo nella vita cittadina.
A distanza di sei secoli, il cristogramma pratese non è soltanto un manufatto d’arte sacra. È un documento visivo di quel momento: la prova che un’idea – quando è semplice, luminosa, condivisibile – può davvero modificare il modo in cui una comunità si percepisce. Anche oggi, quando scattiamo una foto a quel pannello, non stiamo solo osservando un oggetto artistico: stiamo guardando un frammento di una città che si è lasciata cambiare da un predicatore venuto da lontano, con il saio consumato e una sola parola d’ordine: unità.
Bernardino comprese che la fede – e forse qualunque idea forte – ha bisogno di simboli. E che un simbolo, se ben usato, sa attraversare i secoli meglio di qualunque discorso. Quel sole dorato che ancora oggi brilla a San Francesco è un ponte sottile tra passato e presente: ci ricorda che la città, nei suoi momenti migliori, sa ancora riconoscersi in qualcosa di più grande di sé stessa.

