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La Cappella della Madonna dei Papalini |
Il 5 ottobre del 2013, in occasione della X giornata nazionale degli Amici dei Musei, è stata aperta al pubblico, dopo un restauro finanziato dagli Amici dei Musei di Prato, dalla Confartigianato e dalla Fondazione della Cassa di Risparmio e realizzato da Daniele Piacenti con gli operatori del suo laboratorio la Cappella della Madonna dei Papalini, che ospita, oltre a diversi dipinti di valore e al primo sepolcro di Santa Caterina de' Ricci, una venerata statua della Vergine in terracotta dipinta di origine quattrocentesca, rimaneggiata nei secoli (in origine si trattava di un busto, la parte inferiore della statua è novecentesca) e ordinariamente rivestita con un abito settecentesco.
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La basilica di San Vincenzo e Santa Caterina de' Ricci |
Più che per il valore artistico, la memoria di questo luogo è legata al sacco di Prato che avvenne il 29 agosto del 1512 ad opera delle truppe spagnole guidate da don Raimondo di Cardona viceré di Napoli e da Giovanni dei Medici, il futuro Leone X, nel tentativo di restituire ai Medici il dominio di Firenze, e che causò circa 6000 vittime tra la popolazione pratese. L’episodio che ha determinato la genesi della Cappella stessa è rappresentato dal miracolo compiuto allora dalla Madonna in terracotta policroma: fu lei ad impedire a tre capitani spagnoli, Giovanni, Vincenzio e Spinoso, di penetrare il monastero e saccheggiarlo. Tale miracolo risparmiò il monastero mentre la città veniva messa a ferro e fuoco dalle truppe spagnole alleate del Papa, i cosiddetti “papalini”.
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L'altare con la tomba di Santa Caterina de' Ricci |
L'episodio viene raccontato da Claudio Cerretelli, direttore dei Musei diocesani di Prato, citando le fonti originali e in particolare la cronaca di un frate domenicano, padre Serafino Razzi, che descrisse minutamente l'avvenimento:
Alla fine del Cinquecento fra Serafino Razzi, descrivendo anche in base alle testimonianze da lui raccolte gli orrori del Sacco di Prato, ricorda che i mercenari non ebbero riguardo «né a cose sacre né a persone, anzi profanarono quegl’empi i sacri tempij e le chiese […] et entrando in alcuni monasteri stuprarono più sacre vergini»; ma, continua il Razzi, «non mancò la divina bontà e providenza di soccorrere ad alcuni luoghi pij e religiosi, salvandogli miracolosamente dal flagello che fu a gl’altri commune»
Il domenicano racconta che, quando la città fu assediata dai mercenari, «la maggior parte delle fanciulle della Terra si riffugirono ne i sacri monasterij; et in San Vincenzio, oltre alle quaranta in quarantacinque suore che all’hora erano, gran numero di verginelle secolari si ritrovarono: onde, levatosi il romore de i soldati, i quali erano entrati nella Terra, tutte le monache con le predette fanciulle corsero in chiesa all’orazioni. Et ecco che tre capitani spagnuoli arrivarono alla porta del monastero (la quale era stata chiusa)e ributtandone il fattore che la guardava, entrarono dentro minacciosi e fieri, e con animo – come poi dissero – di mandar’ ogni cosa a sacco et in direzzione». Per dirigersi alla chiesa giunsero «dove in testa di certo andito era una venerabile imagine di Nostra Donna, di rillievo, col suo Giesù piccolino davanti, la quale serviva all’hora per presepio. Et inginocchiati tutti e tre davanti a lei, e dopo alquanto rittisi in piedi, furono veduti pigliarsi per mano, quasi dandosi la fede l’un l’altro».
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L'apertura della cappella verso il parlatorio, un tempo chiesa dei "secolari" |
Raggiunta la chiesa, dove le suore erano ormai preparate al martirio, i soldati chiamarono la priora, «che in quel tempo era suor Raffaella da Faenza, religiosa di molto valore e bontà, le dissero che stesse con tutte l’altre di buona voglia et animo, peroché non volevano far loro alcuno oltraggio o villania», mentre invece avrebbero protetto le suore e il monastero «da ogni ingiuria e danno». Messe le loro insegne alla porta di ingresso, e fattisi portare dei letti per dormire, per le tre settimane del saccheggio presidiarono il convento, pretendendo solo «le robe portatevi da’ secolari in custodia». I tre capitani, Giovanni, Vincenzo e Spinoso, partirono infine alla volta di Bologna, insieme alle truppe, accompagnati dalle preghiere riconoscenti delle suore.
Le ragioni di un comportamento così particolare, come racconta il Razzi, divennero chiare solo molti anni più tardi: nel 1542 un frate domenicano giunto a Prato insieme al Maestro generale dell’Ordine, Alberto Las Casas (Casaus), narrò alle suore di aver ascoltato in un convento spagnolo un anziano frate, «che, avvicinandosi a morte, stava con tanta fidanza e sicurtà del paradiso e della gloria celeste, che recava stupore a gli astanti, i quali sapevano come molti anni detto padre era stato apostata e fuori della religione, e si era ritrovato in molte guerre capitano di nominanza. Onde essendo addimandato della causa di tanta sua sicurezza e letizia, raccontò come essendosi trovato l’anno 1512 capitano di fanteria nell’esercito spagnuolo che saccheggiò la terra di Prato in Toscana», era entrato con altri due compagni, Vincenzo e Spinoso, nel monastero di San Vincenzo, «con animo di amazzare, rubare e di fare ogn’altro male, ma che poscia, arrivando davanti a certa divota Vergine, ella favellò loro e gli comandò che riguardassero detto monastero e che, ciò facendo, prometteva loro al sicuro il paradiso. E perché – diceva egli, che fu quel terzo capitano Giovanni – noi lo salvammo nell’honore, nella roba appartenente a lui et in ogni altro affare, per grazia di Dio e di essa gloriosa Vergine ritornai poco tempo dopo alla santa religione».
Il Razzi, padre confessore del monastero, conclude che questa notizia confermava quanto riportavano i ricordi del monastero, e che «in memoria di tale beneficio, ciascun’anno in questa benedetta casa di San Vincenzio, il giorno di san Giovanni dicollato (che fu il giorno in cui entrarono gli Spagnuoli predetti in Prato, costumano le suore di confessarsi e communicarsi e di cantare appresso una solenne messa della Vergine, e poscia, la sera, fare una solennissima processione, portando la prefata immagine della Madonna, con lumi e con canti, per tutti i principali luoghi del monastero»
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Il coro delle monache di clausura |
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