Il grande gelso di Casa Sasso Nero |
L'ambiente collinare ai piedi degli oltre novecento metri dei Faggi di Iavello, compreso tra i due torrenti Agna e Bagnolo, era infatti nei secoli passati assai più coltivato e popoloso di adesso.
Giovanni Villani, mercante, storico e cronista fiorentino contemporaneo di Dante Alighieri, racconta con un tocco di involontario umorismo topografico che nel luogo ove oggi si trova la Fattoria di Iavello esistevano negli anni intorno al Mille la chiesa e il villaggio di San Tommaso sul Poggio di Giove, i cui abitanti dovettero però emigrare nella piana a seguito di ripetuti saccheggi, dando origine a quel villaggio di Pratum che ha dato nome alla nostra città.
Ma lo spopolamento fu solo temporaneo, i luoghi erano fertili e solatii: a "Giavello" toponimo derivante dal tardo latino che significa "manipolo, fascio di spighe" fu dapprima edificato intorno al 1100 un fortilizio - sicuramente in legno - da parte dei conti Guidi: che lo cedettero ai primi del Trecento agli Strozzi, e poi ai Venturi, ai Martini Bonajuti, ai Da Filicaja, ai Pandolfini Covoni che ne fecero infine eredi per matrimonio - a metà Ottocento - gli attuali proprietari, un ramo dei principi Borghese di Roma.
Il 28 novembre del 1325 la fortezza fu presa e distrutta dalle truppe di Castruccio Castracani, che assediavano anche il castello di Montemurlo, e poi ricostruita e trasformata più volte fino ad assumere l'aspetto attuale di villa signorile con fattoria, più isolata per posizione ma non diversa da tante altre del territorio.
Nel 1940 i Borghese arrivarono a attribuire alla tenuta di Iavello 20 poderi nei comuni di Montemurlo, Montale e Cantagallo, e l'estensione dei boschi appenninici gestiti dall'azienda raggiunse in quelle date quasi i 1000 ettari, per poi ridimensionarsi nel secondo dopoguerra con la crisi dell'agricoltura tradizionale. Negli anni Sessanta del Novecento 600 ettari della tenuta vennero ceduti al demanio, che li incluse nell'area protetta della foresta dell'Acquerino: molte altre case e terreni furono venduti a privati, e nell'insieme i campi e le coltivazioni si ritirarono per lasciare spazio a quella rinaturalizzazione che contraddistingue tutto il nostro Appennino.
Non diversamente da quelli di altre zone che conosciamo anche gli antichi poderi di Iavello sono rimasti vittime dell'inesorabile smembramento che è seguito alla perdita della loro funzione produttiva, col risultato che solo i terreni più prossimi agli edifici sono rimasti ad essi collegati, mentre il resto delle loro antiche pertinenze - uliveti, boschi, vigneti - sono diventati solo uno sfondo per allietare lo sguardo degli attuali residenti, che frequentano questi luoghi per lo più nei fine settimana o durante le ferie estive.
Ciò che resta dell'antico paesaggio agrario, massimamente oliveti e vigne, spesso coltivati in quei campi terrazzati che testimoniano silenziosamente il lavoro di generazioni di contadini, sono stati riadattati alle esigenze del cittadino che "gioca" a fare il coltivatore diretto, abbandonando le attività che richiedono una presenza costante e un forte impegno di manodopera a favore di quelle che possono - o si pensa che possano - essere praticate nel così detto "tempo libero".
In questo contesto la coltivazione del gelso è una delle attività che abbiamo perduto e che non fa parte di quelle "giocate" nel fine settimana dai cittadini in libera uscita. Collegata all'allevamento del baco da seta, la coltivazione di questa pianta originaria dell'Asia era diffusa in tutta la Toscana in forma più o meno dispersa, di solito come attività sussidiaria portata avanti dai contadini con quel sistema produttivo "misto" tipico del podere mezzadrile, che tendeva ad ottimizzare anche così l'impiego della numerosa manodopera familiare nel corso delle stagioni.
Dal gelso, oltre alle foglie - indispensabili per l'allevamento dei bachi da seta che se ne nutrono - si utilizzano i frutti dette "more". Maturano nel mese di giugno e vantano svariate proprietà curative nei confronti di febbre e affezioni dell'apparato respiratorio. Non ultima cosa, sono anche buone da mangiare e per aromatizzare liquori.
Il gelso della casa Sasso Nero è un esemplare imponente di questa specie. Penso che sia stato messo in loco al momento della costruzione della casa colonica nelle forme attuali, più o meno tra il XVII e il XVIII secolo, nel periodo in cui la proprietà della terra era della famiglia Martini Bonajuti. La sua età è quindi di circa 400 anni, e ciò lo pone di diritto tra i "monumenti verdi" della nostra zona: da conservare, tutelare e visitare, naturalmente con la dovuta reverenza di fronte a un essere vivente che ha attraversato indenne oceani di tempo per giungere fino a noi. E con un plus, se vogliamo: quello di rappresentare, per chi sappia vedere oltre l'apparenza, quella trasformazione che tutti noi stiamo vivendo.
Carta IGM al 25:000 della zona di Javello |
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