martedì 1 dicembre 2020

Un'americana a Prato

"None knew thee but to love thee"
Nel cuore della campagna toscana, tra le colline che incorniciano la città di Prato, si trova la piccola frazione di Canneto, un angolo di mondo dove il tempo sembra essersi fermato. Il villaggio, costituito da poche case sparse tra la ferrovia "Direttissima", la chiesetta di San Michele e la storica villa rinascimentale della nobile famiglia Rucellai, custodisce un piccolo cimitero, raccolto e silenzioso, che accoglie le spoglie di chi qui ha trovato l'ultimo riposo. Tra le sepolture, una in particolare attira l’attenzione: un’elegante tomba in stile gotico che appartiene a Katharine de Kay Bronson, una figura di grande rilievo nella cultura cosmopolita dell’Ottocento.
Ritratto, John Singer Sargent
Katharine, nata nel 1834 nei pressi di New York, proveniva da una famiglia di spicco. Suo padre, George Coleman de Kay, era un ufficiale della marina statunitense e fratello di James Ellsworth De Kay, eminente naturalista e zoologo. Sua madre, Janet Halleck Drake, era figlia del poeta Joseph Drake, un legame che suggerisce come l’amore per la cultura e la letteratura scorresse nel sangue di Katharine fin dalla nascita. Primogenita di sette figli, trascorse i suoi primi anni d’infanzia nella quiete della valle dell’Hudson, circondata dalla natura e dagli scenari che ispirarono molti poeti romantici americani.

Tuttavia, il destino la condusse presto lontano: all’età di otto anni la famiglia si trasferì nella frenetica New York, una città in piena espansione, in cui Katharine ricevette un’educazione raffinata. La sua prima grande avventura ebbe luogo a soli tredici anni, quando attraversò l’Atlantico insieme al padre, che aveva organizzato una spedizione di aiuti per l’Irlanda, all’epoca devastata dalla Grande Carestia. Questo viaggio segnò profondamente la giovane Katharine, esponendola alle realtà della sofferenza e dell’impegno sociale, due aspetti che avrebbero caratterizzato tutta la sua vita futura.
Acquerello di Ellen Montalba, 1892
Nel 1855, poco più che ventenne, sposò Arthur Bronson, un ricco proprietario terriero del Connecticut, di dieci anni più anziano di lei. La coppia, attratta dall’Europa, vi si stabilì poco dopo il matrimonio, scegliendo dapprima Parigi come residenza e poi, alcuni anni più tardi, Venezia. Fu nella città lagunare che Katharine e Arthur acquistarono Ca’ Alvisi, un elegante palazzetto affacciato sul Canal Grande, proprio di fronte alla Basilica della Salute. Dal 1876 questa divenne la loro dimora definitiva, il luogo in cui la coppia visse i suoi anni più felici, circondata da un vivace entourage culturale. La loro casa si trasformò presto in un salotto letterario e artistico, frequentato da illustri personaggi dell’epoca, tra cui Robert Browning, Henry James, John Singer Sargent e William Merritt Chase. L’amicizia con Eleonora Duse, la grande attrice italiana, fu particolarmente intensa e duratura.
La terrazza di Cà Alvisi, oggi
Accanto all’impegno culturale, Katharine si dedicò con passione anche alla filantropia. Convinta dell’importanza dell’educazione per il riscatto sociale, fondò una scuola per i bambini poveri e, nei rigidi inverni veneziani, aprì le porte della sua casa per accogliere famiglie indigenti, dimostrando una generosità che andava oltre la semplice beneficenza.

Tuttavia, la felicità della coppia venne presto turbata. Intorno al 1880, Arthur Bronson iniziò a manifestare i segni di una grave malattia mentale che lo costrinse a un progressivo isolamento. Alla fine, fu necessario il suo ricovero in una casa di cura per malati psichiatrici a Parigi, la città che un tempo aveva accolto i loro sogni di gioventù. Nonostante la distanza, Katharine non smise mai di fargli visita, recandosi regolarmente nella capitale francese. La loro storia, pur segnata dalla tragedia, testimonia un amore profondo e un legame indissolubile, spezzato solo dalla morte di Arthur nel 1885.

La nave corazzata "Sardegna" della Regia Marina
Rimasta sola a Venezia, Katharine continuò a vivere nella sua amata Ca’ Alvisi, circondata dall’arte e dalla cultura. Nel frattempo, sua figlia Edith Millicent, nata nel 1861 a Parigi, cresceva in un ambiente raffinato e cosmopolita. Nel 1893, durante una serata veneziana, Edith conobbe Cosimo Rucellai, un giovane ufficiale della Regia Marina italiana, affascinante ed elegante, appartenente a una delle più antiche famiglie nobili toscane. Il loro incontro fu un colpo di fulmine e, in breve tempo, i due decisero di sposarsi. Il matrimonio ebbe luogo il 24 giugno 1895, in un lunedì d’inizio estate, suggellando l’unione tra due mondi apparentemente distanti: quello aristocratico toscano e quello borghese e internazionale degli americani trapiantati in Europa.
Cosimo ed Edith con quattro dei cinque figli
Dopo il matrimonio, Cosimo riprese il servizio in Marina, mentre Edith rimase con la madre a Ca’ Alvisi, dove nel 1896 nacque la loro prima figlia, Nannina. L’anno successivo, con l’arrivo del secondo figlio, Cosimo decise di congedarsi dalla Marina e trasferire la famiglia in Toscana, nella tenuta del Pratello a Campi Bisenzio. Katharine, ormai sola a Venezia, scelse di lasciare la città lagunare e di stabilirsi ad Asolo, un borgo incantevole ai piedi delle Prealpi venete, già noto per la sua atmosfera colta e raffinata.

Nel 1889, su suggerimento dell’amico poeta Robert Browning, Katharine aveva acquistato una dimora molto particolare, costruita sopra una delle porte delle antiche mura cittadine e per questo chiamata "La Mura". Qui continuò a ricevere artisti, scrittori e intellettuali dell’élite angloamericana, che la consideravano una mecenate e un punto di riferimento. Tra le frequentatrici più assidue vi fu Eleonora Duse, con la quale instaurò una profonda amicizia, condividendo lunghe conversazioni e momenti di intima complicità. Henry James, lo scrittore inglese, fu uno degli ospiti più illustri: nel 1899 soggiornò a "La Mura", lasciando poi pagine affettuose dedicate alla sua ospite e alla magia di Asolo.
Katharine a Venezia, verso il 1870
Ma proprio in quell'anno una malattia la costrinse a lasciare Asolo per avvicinarsi alla figlia che in quel periodo risiedeva tra la villa campigiana del Pratello, il palazzo Rucellai di Firenze in via della Vigna Nuova e la villa "rustica" di Canneto, che nel tempo era diventata la residenza semiufficiale della famiglia, diventata negli anni piuttosto numerosa. Tra il 1896 e il 1903 A Edith e Cosimo erano infatti nati 5 figli: Nannina, Bencivenni, Bernardo, Juanita e Giovanni. Purtroppo il soggiorno fiorentino fu breve: la malattia si rivelò incurabile e Katharine morì a Firenze nel febbraio 1901. Aveva 67 anni.
Bencivenni, Bernardo, Nannina e Giovanni
La vita di Katharine de Kay Bronson fu quella di una donna straordinaria, capace di unire bellezza, cultura e generosità in un’epoca di profondi mutamenti sociali e culturali. Il suo ultimo riposo, nel piccolo cimitero di Canneto, rispecchia il suo destino cosmopolita e al tempo stesso solitario: la sua tomba, in stile gotico, è collocata fuori dalla cappella Rucellai, poiché, essendo protestante, non poteva essere sepolta accanto ai parenti cattolici del genero. Eppure, la sua memoria vive ancora, tra le pagine degli scrittori che la conobbero, nei ritratti degli artisti che la dipinsero e nelle mura delle case che amò, da Venezia ad Asolo, fino alle dolci colline toscane che la accolsero per l’eternità.
La Villa di Canneto, oggi
Edith volle che la madre venisse sepolta nel cimitero più vicino a quella che era diventata la sua residenza abituale, la villa di Canneto. Un piccolo cimitero, un angolo quieto e quasi dimenticato di campagna toscana dove riposare, in un parallelo ideale col Cimitero Marino di Paul Valery:
"Oh per me solo, solo mio, in me stesso,
Accanto a un cuore, alle fonti del verso,
Tra il vuoto, attendo, e il divenire puro,
Un eco della mia grandezza interna,
Amara, cupa e sonora cisterna,
Che un rimbombo dà in me, sempre futuro!"
La cappella nel cimitero, a sinistra il sepolcro di Katherine

domenica 11 ottobre 2020

La Cappella dei Principi, o della meraviglia della fine

Sarcofago e statua di Ferdinando I  
A Firenze c'è un luogo in cui si coniugano sfarzo e celebrazione, decadenza e caducità. Un posto in cui la "meraviglia" seicentesca raggiunge vertici incomparabili di arte e artigianato per celebrare una dinastia - quella medicea - che nei due secoli precedenti aveva stampato fermamente il suo sigillo sulla Toscana e che nell'attraversare un secolo di ferro e sangue come il Seicento sentiva già incombere su di sé, inesorabile, l'ombra della fine.
Dietro all'altare
Questo luogo è la Cappella dei Principi in San Lorenzo. È il canto del cigno degli ultimi Medici: il loro sepolcro, cupo e grandioso, lucido di marmi e pietre dure, rivestito di meravigliosi pannelli in commesso per creare i quali venne fondato un Opificio - detto appunto "Delle Pietre Dure" - che ha sfornato nei secoli dei veri miracoli di artigianato e che esiste e opera ancora oggi.

Vista d'insieme  
Ideata da Cosimo I, la Cappella fu concretamente realizzata a partire dal 1604 sotto il suo successore Ferdinando I. Per l'esecuzione dei lavori fu incaricato l'architetto Matteo Nigetti che utilizzò i disegni di Don Giovanni de' Medici, fratello del Granduca, modificati dal Buontalenti. Si tratta di un ambiente imponente: la Cappella ha un diametro di 28 metri e il coronamento - a cupola - raggiunge l'altezza di 59 metri, rendendola la più maestosa in città dopo quella brunelleschiana di Santa Maria del Fiore.

Sebbene i lavori siano durati quasi ininterrottamente per un secolo e mezzo, non è stata terminata. Ciò nonostante quello che è stato fatto rende bene l'idea di ciò che si voleva: un monumento che eternasse la dinastia e che fosse insieme testimonianza e celebrazione della grandezza della famiglia, nella luce cupa di un secolo tragico di guerre e assolutismi - il Seicento - che faceva della teatralità la sua cifra dominante. 
Pannello in commesso dall'altare  
Il secolo barocco vedeva nel mondo una grande rappresentazione in cui ciascuno recitava una parte: e anche la più terribile delle parti, quella della Morte, in tutte le sue incarnazioni - morte di una persona, di una famiglia o di una dinastia - doveva sottostare alle regole del teatro e dare monito ma anche meraviglia agli spettatori. Per questo la Cappella dei Principi era il gran teatro in cui andava in scena la rappresentazione più importante, quella che dalla morte portava il Principe - e la dinastia medicea - nell'eternità.
Dettaglio di un pannello  
In questa visione la realtà è una dimensione di apparenza dietro la quale si muovono i veri artefici della tragedia del mondo: un luogo crudele, dominato dalle forze del Male, cupo e ambiguo, a tratti misterioso, in cui le azioni dei personaggi si sviluppano per antitesi e parallelismi senza arrivare mai a una chiara sintesi. Una scena in cui l'immagine, il gesto, la magnificenza dei protagonisti divengono più importanti delle loro parole e persino della loro identità, portandoli a perdere la loro individualità per eternare sé stessi in una infinito gioco di specchi su un palcoscenico rivestito di pietre dure e marmi rari.

domenica 29 marzo 2020

Le "Spine" della Calvana

Biancospini sul Monte Maggiore
I monti della Calvana nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale hanno subìto una trasmutazione alchemica. Da luogo agricolo e silvopastorale, abitato da allevatori e contadini che risiedevano da generazioni su questa terra sassosa, carsica, piegata alle esigenze dell'uomo solo con un lavoro incessante di costruzione e modellazione di terrazze e recinti, punteggiata da case di dura pietra alberese sagomata da scalpellini itineranti che scavavano le rocce come se estraessero le ossa stesse dei monti per farne dimore adatte a questa gente dura, si è trasformata e ha improvvisamente cambiato volto. 

Un mondo è scomparso e un altro, incerto, si va facendo strada fagocitando i resti del passato. I contadini sono spariti, pochi sono gli allevatori rimasti: persino il bestiame, organizzato in branchi allo stato brado, ritorna a occupare liberamente i prati sommitali. Solo la Natura, trionfante, va lentamente rioccupando gli spazi che l'uomo le aveva tolto, invadendo le case diroccate, riempiendo di alberi e di verde selvatico i campi e gli gli antichi terrazzamenti, occupando i valloni e nascondendo le strade medievali, le torri, le chiese e le sorgenti, cancellando le tracce di interi abitati che secolo dopo secolo avevano lasciato la loro impronta su questi monti.

Alla Spina Vagliucci
Paradossalmente tutto questo accade nel momento in cui la Calvana è a portata di mano, facile da raggiungere attraverso strade e sentieri ben tracciati, e la piana che la circonda è popolosa, ricca di vita e opulenta come non era mai stata in tutta la sua storia. Ma proprio la modernità della vita nella piana ha reso più distanti i monti che la sovrastano. Li attraversiamo per qualche escursione, a piedi, in bicicletta o con mezzi fuoristrada, sempre per poche ore e con la sensazione di essere come astronauti che esplorino un mondo alieno, legati a un cordone ombelicale invisibile che impone di tornare alla base prima che si esauriscano le riserve d'aria.

Il richiamo di questi monti è un canto che attira e respinge allo stesso tempo: ne percorriamo i sentieri e le antiche mulattiere perché sentiamo di essere ancora parte di un mondo che è trascorso; ma quando ci siamo dentro avvertiamo che ci è diventato estraneo. Indice di questa estraneità è l'incapacità di riconoscere i segni del passato, che pure punteggiano ogni luogo della catena.

Uno di questi segni onnipresenti è dato dalle "Spine", ovvero dai biancospini monumentali a portamento arboreo che sono presenti quasi ovunque, con l'esemplare più conosciuto, la Spina Vagliucci, situata  nelle praterie a nord del monte Maggiore, che stupisce per le dimensioni davvero notevoli: circa quindici metri di altezza per una circonferenza al colletto di oltre due metri. 
Bacche di biancospino vicino al Passo della Croce
Probabilmente questa "Spina" ha un'età di quasi cinquecento anni. Segnava i pascoli di di Savignano, Casanera e Colombaia già ai tempi del Machiavelli. Fa parte di tutta una schiera di piante che venivano lasciate crescere da sole o in siepi per segnare i confini delle proprietà, e che si trovano a testimonianza di quanto un tempo il territorio della Calvana fosse popolato, minutamente diviso ed assegnato a dinastie di coltivatori ed allevatori. 

L'abbandono della pratica di creare siepi e alberi di biancospino per indicare e suddividere le proprietà discende dalla meccanizzazione agricola, anch'essa figlia di quell'industria che ha portato allo spopolamento delle scabre terre della Calvana. Le siepi di biancospino, coperte di bianchi fiori profumati in primavera e di scenografiche bacche in autunno e in inverno, sono scomparse come il mondo di cui erano parte perché con le loro spine e i loro rami intrecciati e fittissimi creavano barriere impenetrabili che rendevano difficoltosa la circolazione dei mezzi meccanici. 

Figlie di un'epoca analogica di opere manuali, mute testimoni di un Appennino "prima del motore", parlano solo a chi sa vedere e raccontano di un tempo profondamente diverso da quello di oggi, del quale pur tuttavia noi siamo eredi. E ci ricordano che dovremmo diventare consapevoli di questa nostra eredità, perché solo chi ricorda da dove è venuto sa dove può andare.

sabato 21 marzo 2020

Gli Ariani di Ravenna

Battesimo di Cristo nel fiume Giordano, mosaico (sec. VI)
Gesù disse:
«Io sono la luce che è su ogni essere.
Io sono ogni essere. 
Ogni essere è venuto da me. 
E ogni essere viene a me. 
Tagliate il legno, là io sono. 
Sollevate la pietra, là mi trovate».
Vangelo di Tommaso, Logion 77

Noi moderni siamo abituati a pensare al cristianesimo come a qualcosa di definito e cristallizzato, con i suoi libri canonici, i suoi precetti, i comandamenti, le sue gerarchie e le sue professioni di fede. Il fatto che una religione sia refrattaria al cambiamento ha anche una sua logica: se la verità rivelata è unica e indiscutibile non ha bisogno di adattarsi al tempo, è il tempo che si deve adattare a lei.

E questo è anche uno dei punti di attrazione che offre un credo religioso. Sai che per raggiungere la salvezza devi rispettare delle regole, sai che devi seguire delle leggi ben precise, e questo a prescindere dal momento storico e dal luogo in cui ti trovi a vivere. L'immutabilità delle leggi è un riflesso di quell'eternità che la religione sottintende e si pone come una roccia di stabilità nel fiume dell'eterno cambiamento che la vita porta in sé.
Angeli e demoni, M.C. Escher
Non è sempre stato così. Sarebbe più corretto dire che questa apparente immobilità della religione in cui siamo cresciuti è solo un'illusione ottica dovuta alla grande estensione temporale nella quale è venuta a svilupparsi. In realtà la religione come la conosciamo oggi è solo il risultato di una serie interminabile di inclusioni ed esclusioni: fin dal principio ci furono momenti in cui doveva essere definita l'ortodossia. Ciò che non era ortodosso diventava eretico, e l'ortodossia emergeva dal mare dell'eresia come una statua da un blocco di marmo grazie al lavoro dello scultore.

È molto difficile anche solo intravedere quale sia stata la realtà concreta della figura di Gesù nel suo percorso storico. I racconti che ne narrano vita ed opere sono numerosi, scritti molti anni o anche secoli dopo la sua morte, in maggioranza da persone che non lo conobbero o che non ebbero con lui alcun contatto diretto, verosimilmente piegati alle necessità storiche del tempo in cui vennero compilati, contaminati nella loro stesura dalle credenze e dalle idee delle persone che li scrissero, sia che fossero eretici o difensori dell'ortodossia. E che in più di un'occasione si scambiarono di posto, come in un gioco di specchi o in un quadro di Escher.
Cattedra di Massimiano, avorio, V secolo
Uno di questi personaggi è un vescovo alessandrino di nome Ario. All'epoca Alessandria d'Egitto si poteva definire la New York o la Parigi dell'Impero Romano: ricca, colta, cosmopolita, erede di due culture - greca ed egizia - ben più antiche di quella dei conquistatori romani. Sede di una gigantesca Biblioteca che aveva fama di essere la maggiore dell'Impero, attraeva studiosi e intellettuali da ogni parte del mondo conosciuto.

Ario, di origine berbera, nato in Libia intorno al 250, era uno di questi studiosi, formatosi alla scuola di un Luciano di Antiochia che in altri secoli sarebbe stato un filosofo ma che in quella stagione storica era un "presbitero" (ovvero sacerdote) e un teologo, famoso per il suo rigore intellettuale. Come tanti in quell'epoca viveva un'esistenza sospesa a metà tra la vecchia e la nuova stagione religiosa, con gli antichi dei ancora vivi e presenti sottotraccia nei nuovi insegnamenti.
I Re Magi, Sant'Apollinare Nuovo, mosaico (sec. VI)
Da questo mescolarsi di culture Ario maturò una sua interpretazione della religione cristiana che ancora oggi affascina, e che vede una sorta di gerarchia tra le figure della Trinità in cui solo una - il Padre - ha natura totalmente divina in quanto Unico e indivisibile, mentre il Figlio e lo Spirito Santo sono "emanazioni", esseri sovrumani ma in qualche modo inferiori proprio perché venuti dopo l'Unico che li ha creati.

La diffusione delle sue tesi fu almeno inizialmente un successo, al punto che dopo una lunga serie di controversie, in seno al cristianesimo di allora si crearono due fazioni - oggi diremmo due partiti - tra loro contrapposte: gli "ariani" che negavano la divinità del Figlio e gli "ortodossi" che invece l'affermavano. L'imperatore Costantino allora regnante, preoccupato per la stabilità dello Stato fu convinto nel 325 a convocare a Nicea (l'attuale Iznik, in Turchia) un Concilio che dirimesse una volta per tutte la questione, e che vide la sconfitta delle idee di Ario.
Cristo Vincitore, mosaico, V secolo
La sconfitta al Concilio Niceno non fu però definitiva, perché l'arianesimo continuò per molti anni ancora a diffondersi grazie anche all'opera di discepoli come Ulfila, un convertito di origine gotica, che riuscì a propalare la sua versione del cristianesimo, forse più semplice, forse più conforme alla loro mentalità, a molte delle tribù barbariche del Nord, tra cui Goti, Vandali e Longobardi. 

E proprio grazie ai Goti - nella persona di Teodorico - possiamo ammirare una delle rare opere ariano-cristiane ancora esistenti: il mosaico del Battistero degli Ariani di Ravenna, costruito alla fine del V secolo, che mostra nella cupola il battesimo di Cristo nel fiume Giordano. La differenza con un'opera "cristiana ortodossa" è sottile, ma ben visibile: il Cristo battezzato mostra la sua natura pienamente umana e infatti è completamente nudo, senza veli a nascondere i genitali, e anche il fiume Giordano è rappresentato come una divinità fluviale classica, a rammentare che a quel tempo sotto la patina cristiana molte cose del paganesimo restavano ancora vive e vissute.

domenica 2 febbraio 2020

Casa Martelli a Firenze o del vivere "per addizione"

L'ingresso di Casa Martelli
Se un motto si può applicare a Casa Martelli è proprio quello coniato dallo scrittore Carmine Abate, "per addizione". Proprio per addizione è infatti cresciuta questa dimora, partendo da alcune case che i Martelli possedevano in via alla Forca (l'attuale via Zannetti) e allargatasi inglobando le abitazioni confinanti al crescere delle fortune familiari, sempre legate a filo doppio a quelle della famiglia dei Medici, di cui furono fedeli alleati fino dai primi anni del Quattrocento.
Una sala della quadreria
Ricchi come i Medici - ma sempre un passo dietro a loro, mai in piena luce - i Martelli arrivarono anche a intrecciare la loro famiglia con quella dei signori di Firenze. Nel 1570 il granduca Cosimo I sposò in seconde nozze la ventenne Camilla Martelli. Fu un matrimonio tormentato e sfortunato che portò comunque lustro e ricchezza alla casata, che ebbe un periodo di grande fortuna nel Seicento per poi continuare la sua prosperità fino alla fine del Settecento.
Il salotto giallo con l'Adorazione di Piero di Cosimo
Con la fine del mondo mediceo cominciò il declino: l'Ottocento e ancor più il Novecento furono secoli di spoliazione e di lento decadimento, che raggiunse l'apice quando Francesca Martelli lasciò alla Curia Fiorentina il palazzo e quanto conteneva. Nei dodici anni in cui il palazzo restò nelle mani della Curia amministratori infedeli spogliarono il palazzo di molti arredi e tanti oggetti vennero dispersi: per fortuna però nel 1998 venne raggiunto un accordo e l'eredità Martelli fu acquisita dallo Stato.
Il giardino d'inverno
Dal 2009 il palazzo è aperto al pubblico. Io, dopo averlo visto, posso solo suggerirvi caldamente di visitarlo. E' un esempio più unico che raro di dimora nobiliare in cui molto - anche se non tutto - è rimasto come quando i Martelli l'abitavano, senza inserimenti arbitrari ma come una concrezione stalattitica di oggetti e di significati, avvenuta attraverso i secoli per aggiunte successive. Una "capsula del tempo", una nicchia in cui il passato ritorna vivo per farci ancora sentire la propria voce.

domenica 26 gennaio 2020

San Vitale di Ravenna e la dimensione del tempo

L'interno della basilica di San Vitale
San Vitale a Ravenna non è una chiesa come le altre. E' così antica che ti spiazza: ammiri le pitture e i mosaici, resti estasiato davanti alle sue architetture e ai suoi colori ma non ti rendi conto facilmente di quanto sia antica.

Proprio mentre stavamo ad ammirare i mosaici dell'abside, una donna accanto a me mormora al marito, guardando i pulvini traforati delle colonne del matroneo: "Vedi? Anche qui si percepisce l'influenza islamica, le colonne somigliano a quelle dell'Alhambra di Granada".
Una delle finestre del matroneo nell'abside
Io ascolto, ripenso la cronologia di questa basilica e ho un brivido. Questi capitelli sono stati scolpiti cento anni prima che un oscuro mercante di nome Maometto cercasse di unificare le tribù dell'Arabia sotto la bandiera dell'Islam e iniziasse una straordinaria impresa di conquista. Delle loro geometrie l'Islam si è appropriato senza crearle: quando queste colonne furono scolpite non c'era nessun Islam e non ci sarebbe stato ancora per un secolo.
Cristo pantocratore tra San Vitale ed Ecclesio vescovo
Non ho replicato alla visitatrice, ma ho provato una strana sensazione, difficile da descrivere. E' stato come quando ci si sporge per guardare in fondo a un pozzo - e quindi sotto terra - e nell'acqua si vedono, riflesse, le stelle.
L'ambulacro
E' stato come se improvvisamente intorno a me, in questo edificio, nel tranquillo universo in cui mi muovevo si fosse spalancato un vertiginoso abisso di tempo. Che trasformava le cose a cui ero abituato in oggetti alieni, portatori di significati diversi da quelli abituali. Come se quel mondo lontanissimo emergesse attraverso le cose che mi circondavano e si rivelasse ancora vivo e vero.
L'imperatore Giustiniano con la sua corte
Mi sono reso conto che nella nostra superficialità ci siamo abituati a guardare agli edifici che abbiamo intorno in termini puramente spaziali: una costruzione è larga, alta, profonda, ispira o meno maestosità a seconda del suo aspetto puramente fisico. Mentre la vera dimensione di San Vitale, quella che prevale sulle altre, è quella del tempo. Se il tempo degli edifici fosse definibile come uno spazio, San Vitale sarebbe un grattacielo alto quindici secoli, ben più imponente delle costruzioni di vetro e acciaio di Dubai o New York.
Le volte dell'ambulacro
E noi attraversiamo come ombre questa dimensione sovrumana. Ma proprio per questo amo i luoghi come San Vitale: il loro estendersi attraverso il tempo porta dentro di sé una promessa di eternità.

sabato 25 gennaio 2020

Ionica. Una traduzione di Kavafis


La fioritura di maggio a Santorini, 1995
Ὶωνιχὸν

E sradicati i loro simulacri
dai loro templi li scacciammo. Eppure
non fu morire, questo, per gli Dei
Perché t’amano ancora, o terra ionica,
perché in loro, ombre, è la vita
del tuo ricordo, ancora
d’agosto, quando il mattino t’irrora,
l’impeto di energia vitale che ne emana
nel tuo respiro tutto si travasa;
e a volte di una forma indefinita
di adolescente rianima i tuoi colli
l’essenza, che li percorre
vertiginosa.

(Konstantinos Kavafis, trad. Guido Ceronetti)

Ricordo benissimo quella mattina dell'8 maggio 1995 quando arrivammo a Santorini. Tirava vento, e arrivando in aereo da Mykonos non ci eravamo resi bene conto di dove fossimo né di cosa ci aspettasse a Fira. Lasciammo i bagagli in camera - l'albergo era a Kamari, sul lato esterno dell'isola - e prendemmo subito l'autobus per Fira. Quando arrivammo era l'ora di pranzo.

Il paese in sé non sembrava nulla di particolare, salvo il fatto che stava in alto e prometteva un bel panorama: ma quando scendemmo alla fermata e percorremmo i pochi passi che ci separavano da quella che pensavamo fosse solo una bella veduta, ci rendemmo conto che ci eravamo sbagliati. E di grosso.

Davanti a noi si apriva un semicerchio di rocce laviche nere, strapiombante per centinaia di metri su un lago marino azzurrissimo largo chilometri. Case bianche, di un bianco abbagliante, cielo azzurro, acqua blu. Uno spettacolo meraviglioso, di quella bellezza che ti mozza il fiato e annoda la gola. 

Ma quello che più ci fece restare a bocca aperta furono i fiori. Infinite distese di margherite e mesembriantemi coprivano le scarpate di lava nera, in un trionfo di giallo bianco e fucsia. In quel momento mi venne in mente - per restarvi scolpita - la parola vertiginosa della traduzione di Ceronetti da Kavafis. Perché proprio allora la Primavera cicladica mi avvolse come una vertigine, e come una dea si impossessò di me.

lunedì 13 gennaio 2020

I piedi dell'imperatore

Giustiniano e il suo seguito, San Vitale, Ravenna
A Ravenna, nella basilica di San Vitale esiste un ciclo di mosaici unico al mondo che ancora oggi, quasi millecinquecento anni dopo la loro realizzazione, lascia noi moderni a bocca aperta per la loro bellezza, testimonianza della maestria degli artigiani bizantini continuatori della grande tradizione romana.

Realizzati originariamente per un fine politico e religioso (l'esaltazione di Giustiniano nella lotta contro l'eresia ariana) che oggi sfugge alla comprensione dei più, restano ancora come una straordinaria finestra su di un mondo di quasi millecinquecento anni or sono.

Da fotografo, cercando scorci da ritrarre dentro questa chiesa straordinaria, non ho saputo resistere alla tentazione di portare a casa un'immagine di uno dei due pannelli di mosaico più noti della tradizione bizantina: quello che ritrae Giustiniano con i suoi dignitari che inaugurano - in effigie, perché l'imperatore non è mai stato qui - questa basilica, nel 547 dopo Cristo. Millequattrocentosettantatre anni fa.

Elaborando l'immagine al pc sono stato colpito dalla sua atemporalità e al tempo stesso dal realismo di alcuni volti: quello di Giustiniano, che pare fu realizzato a Costantinopoli e portato via mare già pronto per essere inserito nel mosaico, e quello del vescovo Massimiano, committente dell'opera e in quel momento a capo della chiesa ravennate. Anche i volti dei dignitari che lo circondano (i generali Belisario e Narsete, il giovane Anastasio, nipote dell'imperatrice Teodora) sono astratti nell'espressione ma allo stesso tempo realistici, come se fossero stati fermati per l'eternità.

L'imperatore procede verso il Cristo rappresentato nel catino dell'abside portando con sé il pane eucaristico entro una sorta di vaso d'oro. E nel procedere - rappresentato con la mancanza di prospettiva tipica delle scene della pittura bizantina che dispone frontalmente quella che in effetti è una processione - chi ha maggior potere calpesta i piedi di chi gli è sottoposto, tanto per far capire anche in effigie chi è che comanda.