Prato, all'epoca città di circa 20.000 abitanti, era affollata in quel fine settimana. Le voci sulla possibile demolizione dell'altare del Preziosissimo Cingolo, unite al fatto che era domenica e che il giorno successivo si sarebbe tenuto il mercato (anche allora uno dei maggiori del circondario), avevano richiamato e incuriosito molti cittadini. Si stima che per le strade del centro storico ci fossero diverse migliaia di persone, probabilmente dalle 5 alle 8.000. Un cronista contemporaneo, Francesco Buonamici, fornisce la cifra di 25.000, sicuramente esagerata. Molte di queste persone stazionavano nella piazza del Duomo e nei suoi dintorni, attente a cogliere ogni movimento che potesse rivelare l'arrivo dei temuti marmisti.
Nel tardo pomeriggio della domenica, un gruppo dei più facinorosi decise di ispezionare il Duomo e il Palazzo Vescovile per sincerarsi se e dove fossero nascosti questi operai. Come si può facilmente immaginare, l'ispezione si trasformò in irruzione, e l'irruzione in perquisizione. I famigli del vescovo furono costretti a fuggire, mentre una marea di gente entrava in Duomo e nell'attiguo Palazzo Vescovile per cercare i "marmisti" in ogni dove, prendendo nel frattempo tutto quello che poteva essere di qualche utilità.
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La Diocesi di Pistoia e Prato nel XVIII secolo |
La fuga del Vicario granducale, intervenuto per cercare di placare la folla, peggiorò la situazione: la sua ritirata senza risultato fece pensare che fosse andato a chiedere rinforzi a Firenze, e a questo punto un drappello di insorti decise di prendere possesso del campanile, per suonare le campane a stormo e convocare così la plebe dei distretti rurali, ostilissimi anch'essi al vescovo.
La porta del campanile - serrata - venne sfondata con pali e travi, e l'ultimo colpo lo diede un popolano - tale Giuseppe Bertini di 45 anni - conosciuto da tutti come Cestina o Caporal Tigna a causa della sua precoce calvizie, che cozzando a testate come se fosse un ariete aprì la porta già sconquassata. L'impresa del Cestina, opportunamente ingigantita dal passaparola, lo fece diventare il soggetto di un ritratto che qualche tempo dopo realizzò un pittore bolognese e che in breve fece il giro di tutta la Toscana, diventando così celebre che ne volle una copia persino il Papa Pio VI.
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L'altare del Sacro Cingolo in una incisione settecentesca |
Con le campane che suonavano a stormo e il campanile impavesato dalle fiaccole fin sulla cima, Prato si risvegliò nella notte al grido di "via il vescovo de' Ricci" e con l'idea di rimettere le cose come stavano "prima" in nome della "vera fede".
Il Palazzo Vescovile fu saccheggiato da cima a fondo. Si scatenò un autentico carnevale di processioni fuori tempo, con statue di Madonne e di Gesù portate in giro da torme di popolani scalzi, ubriachi, stracciati e malmessi. Questi ultimi andavano di chiesa in chiesa costringendo i parroci ad addobbarle di ceri e torce come se fosse Natale o Pasqua, togliendo e distruggendo le effigi e le insegne dell'odiato vescovo e ripristinando altari e targhe cancellate.
Le campane del Duomo suonate a distesa per ore e il campanile addobbato di torce che lo rendevano visibile da chilometri di distanza richiamarono ulteriori folle dal contado che si aggiunsero a quelle già presenti in città. Giunsero popolani fin da Campi e Agliana, muniti di scuri, pennati, pali forcati, travicelli e altri arnesi. Dicono le cronache che in quella notte vennero bruciate circa 1500 libbre di cera (più o meno mezza tonnellata di oggi), tra addobbi e processioni. E per meglio scaldare l'animo dei facinorosi, anche le cantine del vescovado furono svuotate da tutto il vino che vi si trovava.
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Sebastiano Ricci, Allegoria della Toscana, 1707 |
Il momento culminante della rivolta fu la demolizione della Cattedra Vescovile che era nel Duomo: venne infatti bruciata in piazza insieme allo stemma del Vescovo e a tutti i libri che portavano le sue insegne. Con l'occasione venne lanciata anche la proposta di bruciare la stamperia che all'epoca si trovava sotto al Duomo, ma per fortuna questa idea insensata non ebbe seguito.
La festa durò fino al mattino del lunedì 21 quando un delegato - mandato dal Governo fiorentino con al seguito quattro guardie del Granduca - cedette alle richieste dei popolani. Questi ottennero un'ostensione straordinaria del Sacro Cingolo e la dichiarazione - scritta - che mai e poi mai sarebbe stato abbattuto l'altare.
Seguì una "processione del Gesù morto" fino alla chiesa di San Bartolomeo che calmò gli animi. A questo contribuirono anche il fatto che ormai era la tarda mattinata del lunedì e il sonno, la stanchezza e il vino bevuto si facevano sentire. La folla a quel punto si sciolse e tutti rientrarono a casa proprio nel momento in cui un contingente di truppe granducali, chiamate a reprimere il tumulto, fece ingresso in città.
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Ufficiale delle milizie territoriali toscane, 1748 |
Era il tardo pomeriggio di lunedì 21. Nei giorni successivi ci fu l'inevitabile repressione: soldati giunti da Firenze e da Livorno occuparono la città e diedero inizio a una perquisizione casa per casa che condusse all'arresto di circa 130 persone. I prigionieri vennero condotti al carcere fiorentino delle Stinche, furono interrogati e in maggioranza condannati ad essere frustati sulla pubblica piazza, cosa che avvenne il lunedì 4 giugno in piazza del Duomo dopo che il corteo dei condannati era stato portato in giro per tutto il centro della città. Dei 67 portati in corteo da 140 tra guardie civiche e soldati solo 29 vennero però frustati con 12 frustate ciascuno, gli altri ebbero una condanna al carcere di poca entità. Non ci fu perciò da parte del governo la volontà di infierire sugli insorti, quanto piuttosto quella di far vedere di essere in grado di reagire appropriatamente a un simile evento, pur senza volergli dare troppa importanza.
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Carta di Prato e del contado nel 1719 |
Gli interrogatori degli arrestati fecero subito capire agli inquisitori che la protesta, seppure non apertamente organizzata, era comunque stata fomentata da elementi facenti parte della stessa Chiesa. In particolare, si arrivò alla convinzione che le dicerie che avevano scatenato il tumulto provenivano dai frati di due conventi situati poco fuori delle mura: i Cappuccini dell'omonimo convento e i Padri Francescani del Ritiro che avevano la loro sede in quella
villa del Palco che era stata di
Francesco di Marco Datini.
Questi ultimi in particolare scendevano ogni giorno a dir messa in un Oratorio - quello dell'Ospizio di San Giuseppe, situato di fianco al Duomo nel luogo dove oggi sta oggi il Palazzo Vestri - allora molto frequentato dal popolo pratese perché vi si recitavano molte funzioni in suffragio dei defunti. Sembra che in più occasioni i Padri avessero istigato i fedeli alla disobbedienza nei confronti del vescovo de' Ricci, che vedevano come un pericoloso scismatico.
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La villa di San Leonardo al Palco, oggi |
Di conseguenza, nel pomeriggio di martedì 22 maggio al Palco e ai Cappuccini arrivò un drappello di armigeri con un motuproprio del Granduca che ordinava l'immediata soppressione dei due conventi e la deportazione dei frati, ai quali vennero lasciate poche ore per fare i bagagli e partire. Anche l'Oratorio dell'Ospizio di San Giuseppe venne chiuso, sconsacrato e venduto a privati che lo ristrutturarono a tal punto che oggi non resta più traccia dell'antico edificio.
Come giustamente commentava anni dopo Giovanni Antonio Venturi:
"In Toscana i frati, gli ex-gesuiti, tutti i loro aderenti, tutti
i fautori della corte romana (e non erano pochi) si affaccendavano a mettere in
discredito presso il popolo le innovazioni e gl' innovatori, ad accendere il
fanatismo del volgo : e bisogna pur dirlo, in generale in Toscana non solo le
innovazioni ecclesiastiche, ma tutte quante le riforme di Leopoldo, poi tanto
ammirate, allora o non furono comprese, o furon guardate con indifferenza, o
suscitarono sospetto o avversione. Contro di esse era facile sollevare il
popolo, non cattivo per indole in vero né privo di naturale ingegno, ma da
troppo tempo trascurato ed inerte, superstizioso, affezionato a tutto ciò che
era vecchia consuetudine, diffidente e nemico d'ogni novità e d'ogni movimento.”
Il tumulto pratese, che si rivolse principalmente contro il vescovo de' Ricci non potendo chiamare in causa il Granduca Leopoldo, fu peraltro un termometro fedele della protesta che montava in quegli anni nei ceti colpiti dalle riforme leopoldine: la Chiesa in primo luogo che vedeva scardinati non solo i propri privilegi ma perfino la sua stessa organizzazione, i nobili esautorati dal potere, gli artigiani veri o fittizi colpiti dalla soppressione delle corporazioni e dalle altre riforme liberiste, i commercianti esposti alla libertà di commercio, i popolani che non riuscivano più a mettere insieme il pranzo con la cena.
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Il Granducato di Toscana nel 1780 |
L'anelito dei popolani a "rimettere le cose come stavano" nasceva infatti da evidenti condizioni di alienazione sociale, di crisi economica e di precarietà esistenziale: una vita di miseria e di mancanza di mezzi di sussistenza che faceva loro rimpiangere perfino la stagnante Toscana degli ultimi Medici. Senza queste condizioni di base sicuramente la sommossa non avrebbe avuto un'intensità e un'estensione così ampia sia in città che nel contado. La reazione alle riforme religiose del de' Ricci era semplicemente un sintomo di un rifiuto assai più vasto verso tutto il programma di riforme di Leopoldo, portato avanti non solo dal popolo ma anche dalle classi superiori che del popolo si facevano schermo: clero capitolare, nobili e borghesi cittadini.
Per un insieme di ragioni - climatiche, politiche, organizzative - il periodo delle riforme leopoldine si rivelò una
via crucis per le popolazioni toscane, sempre più impoverite, imprigionate tra la necessità del cambiamento e tutta una serie di calamità che si susseguirono per tutta la seconda metà del Settecento, un secolo contraddistinto dall'imperversare della cosiddetta
Piccola Era Glaciale.
In primo luogo le carestie, che colpirono duro nel 1764-66, e poi ancora nel 1772-74 e nel 1782, aggravate da epidemie favorite dalla generale sottoalimentazione e esacerbate da inondazioni e terremoti che continuarono - episodicamente - a funestare la nostra regione.
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L'alimurgia è il nutrirsi di prodotti selvatici, rimedio obbligato in tempi di carestie |
Un altro movente del generale malcontento stava poi nelle riforme liberistiche di Leopoldo, che incentivavano la massima libertà di commercio livellando i prezzi delle merci toscane - massimamente quelli delle "grascie" ovvero dei viveri - con quelli degli altri Paesi d'Europa, favorendo un incremento dei prezzi delle derrate nell'idea che i maggiori utili realizzati dai proprietari terrieri avrebbero stimolato quell'accumulo di capitali necessario allo sviluppo dell'agricoltura.
Proprio la caduta delle barriere protezionistiche tra città e campagna insieme alla crescita demografica e alla diffusione di istituti come quello della mezzadria - che spesso lasciava ai contadini introiti insufficienti per la loro sussistenza, portandoli a indebitarsi con il loro stesso padrone - mantenne statici, quando non vide addirittura decrescere, i salari, portando vaste masse di popolani a vivere di espedienti, furti ed elemosine.
Questa compressione delle condizioni di vita fu sicuramente il corollario della scelta economica operata dal gruppo riformatore, così come la manifestazione della volontà di ridurre alla pura sussistenza le esigenze delle masse popolari, che assieme al pieno sfruttamento del loro lavoro costituiva ai loro occhi l'unica via per accrescere le rendite dei proprietari terrieri, che in questo modo avrebbero avuto i mezzi sia per investire che per consumare, dando lavoro ad artigiani e a manifatture, in ultima analisi invertendo il senso dello sviluppo economico del Granducato.
In sintesi, le riforme di Leopoldo di Lorena, pur avendo molti aspetti positivi, furono attuate senza tenere conto delle reali condizioni della popolazione, andando ad alimentare un malcontento che sfociò nella rivolta e prese di mira la parte delle riforme - quella religiosa - che sembrava meno preminente per il potere centrale.
E proprio del disagio del popolo si nutrirono i ceti conservatori che cercarono di impedire il cambiamento fomentando la reazione: ma non sarebbero state le processioni e le ostensioni a fermare la marea montante della rivoluzione borghese. I tempi stavano cambiando, il mutamento era ormai irreversibile: mancavano solo due anni al
14 luglio 1789.
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