Dal film L'Abbandono (2017) |
"Gli attuali conventi sono un nido di suddite disgraziate e scontente, che dopo aver condotta una vita infelice qui in terra vanno incontro ad un'eterna dannazione, e che sarà sempre un'opera grata a Dio, e degna della sua Religione e Clemenza, se accordando che un solo convento di monache sia in ogni Diocesi sopprimerà tutti gli altri e ridonerà la libertà a tante disgraziate che l'hanno violentemente o inconsideratamente perduta"¹
"Voi non sembrate italiana. La scorsa notte mi sorprendeste. Vidi sfavillare dai vostri occhi un raggio di luminosa maestà, che tutto mi empiè di venerazione, di rispetto e di maraviglia. Voi mi sembraste per l’appunto una delle nostre dame, le quali, malgrado la soggezione in cui le teniamo, hanno la facoltà d’abbattere ed atterrare co’ loro sguardi."²
Al centro della sua fede aveva posto l'amore, inteso non solo come sentimento spirituale, ma anche come atto fisico e concreto. Secondo Irene, l'amore fisico era una manifestazione della divinità, un modo per entrare in contatto con l'essenza divina presente in ogni essere umano.
Ispirata dalle idee di Giordano Bruno sull'anima del mondo, ella sosteneva che l'amore permeava l'intera realtà, animando ogni creatura. La Chiesa, con la sua rigida moralità e la sua condanna del piacere, negava agli esseri umani la possibilità di vivere questa esperienza sublime. Irene, invece, invitava ad abbracciare l'amore in tutte le sue forme, come espressione della loro natura divina.
Quando doveva parlare alle consorelle usava spesso parabole e metafore per alludere al suo credo. Parlava dell'amore come di una danza sacra, un'unione mistica tra l'anima e il corpo, tra l'uomo e Dio. La sua voce vibrava di passione quando descriveva la gioia e l'estasi che derivavano dall'esperienza dell'amore fisico: diceva che il paradiso è qui, dentro tutti noi, che aspetta soltanto di essere scoperto.
Irene non restò sola a lungo nella sua ricerca spirituale. All'interno del convento, creò in breve un gruppo di seguaci con cui condivise le sue idee e mise in pratica le sue teorie sull'amore come manifestazione della divinità.
Tra queste adepte spiccava una giovane conversa, Clodesinda Spighi, di dodici anni più giovane di Irene. Clodesinda era anche lei di famiglia aristocratica; una ragazza sensibile e intelligente, attratta dalla spiritualità non ortodossa della monaca. Ben presto divenne la sua discepola più fedele, l'unica con cui Irene osava condividere i segreti più profondi del suo credo.
Clodesinda era attratta dalla forza e dalla sicurezza di Irene, che la trattava con gentilezza e rispetto, incoraggiandola a coltivare la sua intelligenza e il suo spirito critico. L'ammirazione per la sua mentore si trasformò presto in qualcosa di più profondo. Clodesinda era incantata dalle sue idee rivoluzionarie sulla fede e sull'amore, che le aprivano nuovi orizzonti e la facevano uscire dalla gabbia delle convenzioni.
Nelle lunghe conversazioni con Irene Clodesinda si sentiva finalmente libera di esprimere i suoi dubbi e le sue aspirazioni, trovando un'anima affine con cui condividere la sua ricerca di autenticità. L'attrazione fisica era solo una componente di questo sentimento complesso. Clodesinda desiderava ardentemente Irene, non solo come amante, ma anche come guida e maestra di vita. In breve la sua divenne una devozione totalizzante, un amore che la spinse a sfidare le regole del convento e a mettere a rischio la sua stessa salvezza.
Irene e Clodesinda presero l'abitudine di riunirsi con le altre adepte per discutere di filosofia, teologia e mistica. Pregavano insieme, meditavano e si dedicavano a pratiche spirituali che includevano l'amore fisico, vissuto come un atto sacro e di profonda comunione. I frati Domenicani, a cui era demandata la cura delle monache, tolleravano questa deriva in cambio di qualche dimostrazione formale di ortodossia. Irene e Clodesinda infatti negli anni "abiurarono" per ben tre volte il loro credo per poi continuare a praticarlo come se nulla fosse.
Scipione pensò che era ben strano che proprio nello stesso convento in cui era vissuta quella Santa Caterina de' Ricci che era stata da poco elevata agli onori degli altari un'altra donna seguisse un cammino apparentemente simile, ma con risultati così diametralmente opposti. Irene, eretica e ribelle, condannata dalla Chiesa. Santa Caterina, mistica e devota, elevata agli altari.
Rifletté che santità ed eresia sono due concetti che si contrappongono, ma che in fondo non sono poi così distanti. Entrambe le donne cercavano Dio, entrambe seguivano un cammino: e pensò - scavando tra le proprie reminiscenze scolastiche - che "eresia" deriva proprio dal greco αἵρεσις "hairesis", che significa "scelta". La scelta di Irene era stata diversa da quella di Caterina nella misura in cui sono diversi i due lati di uno stesso specchio.
E non capitava forse a volte anche a lui quella sensazione di straniamento? Come un sussurro di una voce appena intelligibile, come un brivido che improvvisamente lo pervadeva tutto e per un attimo faceva comparire l'interrogativo più importante, il quesito ultimo: quale sarà la scelta più giusta? Quella di Caterina o quella di Irene? Oppure entrambe?
Anche Lazzero Palli, il vicario che aveva mandato più volte a interrogare Irene, trascrivendo domande e risposte, aveva riferito che malgrado avesse dato fondo a tutta la sua capacità oratoria e dialettica non solo non era riuscito ad ottenere da lei una conversione, ma in diverse occasioni si era trovato stranamente senza parole, come affascinato di fronte alle tesi che lei sosteneva così ardentemente. Un passaggio in particolare di quell'interrogatorio gli era rimasto impresso e continuava a ronzargli in testa:
"In tutte le religioni ci possiamo salvare, ed esercitando erroneamente quello che diciamo impurità, era la vera purità: quella Iddio ci comanda e vuole noi pratichiamo, e senza della quale non vi è maniera di trovare Iddio, che è verità."³
Irene affermava che la vera purità è ciò che Dio ci comanda e vuole che pratichiamo, implicando che la salvezza non dipende dalla conformità a un dogma religioso specifico, ma piuttosto da una sincera ricerca della verità e da una vita condotta secondo principi morali e spirituali; e senza la vera purità, che è la ricerca della verità, non è possibile trovare Dio.
Verità, moralità, spiritualità e salvezza. Scipione pensò che se avesse dovuto condensare il proprio ministero in quattro parole non avrebbe saputo trovarne di migliori.
Per quanto le altre monache di Santa Caterina gli avessero dichiarato di abiurare a tutto quello che Sua Signoria voleva pur di essere lasciate in pace, la sola compagna che era rimasta fedele a Irene, Clodesinda, affermava senza vergogna di volerla seguire ovunque, e che non le importava nulla se avesse meritato l'Inferno, perché anche all'Inferno sarebbe stata felice se fosse stata insieme a lei.
Scipione tornò a pensare a ciò che doveva fare: doveva firmare la lettera destinata al Cardinale Andrea Corsini, visto che il nuovo Arcivescovo di Firenze non era ancora stato nominato. Doveva redigere anche una relazione a sua Altezza il Granduca Leopoldo per metterlo al corrente delle proprie decisioni. Avrebbe imposto la chiusura dei tre conventi domenicani di Pistoia e Prato, il trasferimento delle monache ad altre sedi e l'attribuzione alla Diocesi della cura dei conventi che restavano, togliendola ai Padri domenicani: a mali estremi dovevano seguire estremi rimedi.
Quanto a Irene e Clodesinda avrebbe sondato la disponibilità dei parenti a riaccoglierle in casa: ma a questo punto, con lo scandalo portato in piena luce, le famiglie avrebbero quasi certamente rifiutato di ospitare due eretiche peccatrici: perfino l'amore che si dichiaravano contribuiva a condannarle.
Ripensò alla conversazione che aveva avuto pochi giorni prima con il Cardinale Corsini. Avevano entrambi convenuto che con tutta probabilità alla fine l'unica soluzione sarebbe stata quella di confinare le due sciagurate nello Spedale di San Bonifazio a Firenze: il ricovero dei matti, dove avrebbero espiato la loro colpa rinunciando alla libertà e all'amore.
Camminando veloce, immerso nei pensieri, era ormai arrivato al suo studio nel Palazzo Vescovile. Il terremoto, per fortuna, sembrava non aver fatto danni: il cielo sulla piazza era azzurro, rigato solo dalle traiettorie delle rondini. Aprì la porta: una lama di luce brillante cadeva proprio sulla scrivania, dove i fogli della lettera aspettavano la sua firma e il sigillo; e il bianco della carta spandeva la luce tutto intorno, come una sorta di aureola che incorniciava il documento.
Si fermò un attimo sulla soglia, come interdetto; poi si fece animo, andò alla scrivania, si mise a sedere, prese penna e calamaio. Guardò la luce abbagliante sul foglio, e il contrasto che creava con il resto della stanza: buio e luce, santità ed eresia. Così distanti, così vicine: non era forse anche la santità una forma di follia? Ma quella di Caterina era salita sugli altari, quella di Irene sarebbe finita tra i pazzi di San Bonifazio.
Prese la penna, controllò la punta, la immerse nel calamaio e firmò. Ma inavvertitamente una goccia di inchiostro sfuggì, e andò a creare quella che sembrava proprio una piccola stella.
Nera, sul foglio candido, nitida nella luce.
¹Lettera di Scipione de' Ricci a Leopoldo I, 1786²La Vedova Scaltra, Atto II Scena II
³Vita di Scipione de' Ricci, vescovo di Pistoia e Prato - Luis De Potter, 1825 - p. 244
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