martedì 30 luglio 2024

La Firenze Vecchia di Giuseppe Conti

Giuseppe Conti fotografato da Mario Nunes Vais, 1900 circa

La nostalgia ha sempre avuto un fascino particolare, al punto che ancora oggi tendiamo a idealizzare il passato. Lo osserviamo attraverso le lenti rosa della gioventù, offuscate dalla polvere dell'oblio, e ci dimentichiamo volentieri degli aspetti negativi per esaltare quelli positivi, ammesso che ci siano stati davvero.

Il tema nostalgico è uno dei più sfruttati nella saggistica storica; presenta una folla di saggi imperatori, re illuminati, papi santi e politici lungimiranti che hanno dato ai loro popoli un assaggio di quell'età dell'oro che purtroppo abbiamo - ahimè - ormai attraversato e che così crudamente confligge con il malvagio tempo presente.

Come con tutti gli edulcoranti, anche la nostalgia va usata con cautela, poiché è facile eccedere e trasformare il racconto in una sequenza inverosimile di personaggi improbabili, riducendo il passato a una carnevalata. È necessario avere il dono della misura; un dono che certamente possedeva Giuseppe Conti nel suo libro "Firenze Vecchia".

Giuseppe Conti, vissuto a Firenze tra il 1847 e il 1925, è abile nel trasportarci nella città della prima metà dell'Ottocento: con uno stile vivido e dettagliato, dipinge un quadro completo della vita quotidiana, degli usi e costumi, e degli eventi politici e sociali che hanno caratterizzato la città in quegli anni. Un quadro nostalgico, ma temperato da una vena di ironia che rende il libro ancora oggi piacevole da leggere.

Io l'ho letto per caso, in una delle ristampe pubblicate da Giunti qualche anno fa, e ricordo di aver divorato senza difficoltà le oltre settecento pagine della narrazione, che mi hanno catapultato in quel mondo scomparso della Firenze granducale. Per un po', mi sono trovato anch'io, metaforicamente e con un certo piacere, a portare una lanterna in testa, come certi personaggi di allora, vagando in una città assai diversa da quella di oggi; tra feste, eventi e accadimenti meno eclatanti di quelli attuali, ma ugualmente vivaci.

Per questo motivo vi propongo un brano molto divertente, che parla dell'amore dei fiorentini di allora per il teatro e di come si svolgevano le rappresentazioni nei teatri del tempo. I più curiosi possono cliccare sulla lanterna che introduce il brano: il link aprirà l'archivio di LiberLiber, una biblioteca online di libri gratuiti, dove potrete scaricare l'intero libro per leggerlo.

Una lanterna ottocentesca dei Regi Carabinieri


I Teatri di Firenze Vecchia - Giuseppe Conti

Una delle passioni, si può dire, innate, nei fiorentini è stato sempre il teatro. Avranno cenato magari con una fetta di salame e avranno bevuto acqua, ma il teatro, almeno la festa ci doveva entrare. I teatri più popolari erano quelli dove recitava lo Stenterello, la maschera inventata da Luigi Del Buono, nato nel 1751 e che prima faceva l'orologiaro. 

Questi teatri sono: la Piazza Vecchia, sulla piazza omonima in cima a Via del Melarancio ed oggi incorporato nel palazzo Carrega; il teatro Leopoldo o comunemente la Quarconia e il Borgognissanti. Il teatro della Piazza Vecchia era talmente piccolo, che pareva un casotto da burattini; era costruito quasi tutto di legname, e parecchio più sudicio degli altri due. Si diceva degli Arrischiati, quasi per definire che era un bel rischio l'entrarvi. Sulla porta, per spiegare tale arguta e profonda definizione, c'era lo stemma con una trappola con dentro un topo che faceva di tutto per scappare, nonostante che un gatto fosse lì pronto ad agguantarlo se gli riusciva. 

Alla Piazza Vecchia recitava lo Stenterello Amato Ricci, il beniamino dei fiorentini, per il suo modo simpatico di recitare e di dire barzellette e frizzi pulitamente, senza le sguaiataggini di altri suoi colleghi, facendo ridere per la sua spontaneità e le mosse curiose ed originali. Più che Stenterello, poteva dirsi un vero caratterista, ed andavano a sentirlo anche i signori i quali nelle ultime sere di carnevale vi mandavano i figliuoli, accompagnati dalle governanti e dai precettori. Perfino il Granduca andava qualche volta a sentire il Ricci, e vi mandava i piccoli Principi. 

Al Borgognissanti recitava Lorenzo Cannelli, lo Stenterello più sboccato e sguaiato d'ogni altro, che aveva certi frizzi a doppio senso, da far fare il viso rosso alla maschera del teatro. Perciò, talora, dopo la recita era accompagnato dai birri a dormire al Bargello invece che a casa sua, in special modo per certe allusioni impertinenti dirette al Granduca. Una sera, prima di cominciare la commedia, venne alla ribalta come se avesse da fare una grave rivelazione. Rivoltosi serio serio al pubblico disse: - “Avverto il rispettabile pubblico che in Firenze vi sono tre Stenterelli: Piazza Vecchia, primo: Leopoldo secondo e Borgognissanti terzo.” Le risate e gli applausi furono senza fine; ma la commedia fu senza principio, perché i gendarmi andati sul palcoscenico arrestarono il Cannelli per la sua allusione troppo trasparente al Sovrano e lo portarono in prigione. 

Il pubblico del Borgognissanti, per quanto fosse un teatro frequentato generalmente dal popolo, era meno rumoroso, meno chiassone e meno screanzato di quello chiamato Leopoldo o della Quarconia, dove si spendevano due crazie e dalle otto vi si faceva anche il tocco dopo la mezzanotte. La Quarconia era la Pergola dei beceri e delle ciane che vi andavano all'un'ora: e in quelle due ore dell'aspettare, a quel buio, poiché in tutto il teatro non c'eran che tre o quattro lumi a olio, Dio solo sa che cosa armeggiavano. 

Non sarà seguìto nulla di male, questo no; ma ogni poco si sentiva lassù “in piccionaia” un urlaccio, o trattar male qualcuno e nascer questioni provocate spesso da un manrovescio da lasciar l'impronta delle cinque dita sul viso. La maschera del teatro, con le gambe a sghembo, la lucerna tutta unta e una livrea da insudiciarsi soltanto a guardarla, accorreva qua e là per sedare il subbuglio, e far rispettare la legge: ma quando giungeva, tutto era quieto e nessuno fiatava. 

Qualche volta si sentiva soltanto il rumore d'un lattone sulla lucerna del rappresentante dell'ordine, che minacciava ira di Dio; e che, a sentirlo, se avesse potuto avrebbe fatta una bracciata di tutti e portati al Bargello. Se la maschera poi faceva un po' più il rogantino, e s'investiva troppo della sua posizione, quand'era in cima alla scala per tornare in platea, si sentiva arrivare un di quei pedatoni nel luogo che par proprio fatto apposta, e senza sapere chi si ringraziare si trovava in fondo alla scala tutto in un volo! 

Alla Quarconia, quelle civilissime persone, usavano andare coi tegami dello stufato o dell'agnello, coi fiaschi di vino e col pane, perché così cenavano in teatro facendo l'ora dello spettacolo, e buttando gli ossi giù in platea a quegli altri signori delle panche che glieli ributtavano, con una filastrocca di titoli che dal padre e la madre andavano a ritrovare anche i parenti più lontani. Spesso volavan fiaschi vuoti su qualche testa pelata, facendo anche del male, al punto da dover chiamare il medico; e quando l'ambiente era così riscaldato, da loggia a loggia e da palco a palco, s'iniziava un cordialissimo scambio di mele, torsoli e palle di foglio che era un piacere. 

Si udivan pure gli annunzi di felici digestioni, con certi sospiri degni di quelle creature degli stabbioli di fuor di Porta alla Croce; e alla maschera che redarguiva quelli screanzati dicevan sul viso: - Per lei.... non è nulla, caro sor Aringhe! - e allora quel disgraziato a sbraitare e urlare finché poi non gli toccava a uscire; perché, chi gli girava la lucerna, chi gli tirava le falde e chi gli dava dietro nei ginocchi per fargli piegar le gambe, nei momenti in cui si dava importanza e si stizziva più che mai. 

Quando finalmente alle otto compariva il gobbo Masoni in orchestra, e si accendevano quegli altri dieci o dodici lumi, allora era un pandemonio addirittura. Urli, fischi, applausi, tanto per far fracasso, in mezzo al quale si distingueva suscitando le più grandi risate, la nota acuta di qualcuno di quei soliti sospiri. E fosse finita lì!... Basta, non ne parliamo. Ad un tratto si sentiva urlare: - So' Masoni ! la soni!... e qualcuno più sfacciato lo chiamava gobbo senza tanti complimenti. 

La rappresentanza non consisteva soltanto in una commedia o in una farsa. Abitualmente ci eran cinque o sei cose. Un dramma in sei o sette atti; la pantomima; la farsa, il balletto, e magari la lotta! Infinite erano le interruzioni, le esclamazioni, le approvazioni, le ingiurie, gli improperii e le invettive ai personaggi del dramma o della commedia. Quando c'era sulla scena un re tiranno, era un continuo gridare: - Ammazzalo! ammazzalo!... - Se poi in qualche pasticcio intricatissimo dove nessuno raccapezzava nulla, avveniva che si cospirasse ai danni di qualche vittima, tentando di avvelenarla col mezzo di una bevanda, il pubblico frenetico, come se si trattasse di cosa vera, urlava: - Un lo bere, c'è i'veleno!... - Nei drammi o nelle commedie quando veniva l’amoroso che faceva lo svenevole, o il caratterista a fare il buffone, si sentiva a un tratto qualcuno che diceva: - “Ch' ha egli fatto i' sor ammiccino!...” - all'amoroso. Oppure, al caratterista: - Dice bene Telempio. - 0 anche: - Brao suzzacchera!... - e via di questo passo. 

Se si dava lo spettacolo della lotta poi, era un continuo smuoversi seguendone tutte le fasi. La platea pareva un campo di grano mosso dal vento. Al tocco dopo la mezzanotte, tutto quel becerume se ne tornava a casa, ripetendo strada facendo gli avvenimenti della serata e discutendo i delitti visti commettere, le ingiustizie subìte dagl'innocenti, appassionandocisi come se si dicesse proprio sul serio.


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