lunedì 19 agosto 2024

Redipuglia, 5 luglio 1939

Redipuglia, lettera "F"

Premessa

Nel giugno del 2024, di ritorno da Trieste, mi sono fermato a Redipuglia, il sacrario militare più grande d'Italia, dove riposano circa 150.000 caduti italiani della Prima Guerra Mondiale. Questo monumento imponente e angosciante, nato con l’intento di glorificare il sacrificio di chi cadde "per la Patria", mi ha colpito invece come un simbolo tangibile dell’assurdità della guerra.

Mentre camminavo tra le gradinate, il pensiero è andato al mio bisnonno Vincenzo, nato esattamente cent’anni prima di me, nel giugno del 1862. Anche lui, durante la guerra, aveva due figli maschi: Diego e Quirino, entrambi coscritti, ma fortunatamente sopravvissuti al cataclisma che fu il primo conflitto mondiale.

Uno di loro — mio nonno Diego — era un "ragazzo del '99". Aveva meno di 18 anni quando, nel giugno del 1917, venne chiamato alle armi. Dopo l’addestramento alla caserma di Rovezzano, fu inviato a combattere, a dicembre dello stesso anno, nelle trincee del Monte Grappa.

Diego avrebbe potuto facilmente finire lì, il suo nome inciso in bronzo tra tanti altri, sulle lastre di calcare del sacrario: un ragazzo con le sue aspirazioni e i suoi sogni cancellati da una pallottola, una scheggia di bomba, una baionetta o un soffio di gas velenoso. E mentre stavo in piedi davanti allo spazio dove sarebbe stato inciso il suo — il mio — cognome, mi sono reso conto di quanto poco sapessi di lui e della guerra che aveva combattuto. Nessuno in famiglia ricordava nulla, anche perché mio nonno era morto solo un anno dopo la mia nascita, nel 1963.

Questa sorta di rimozione, questa totale assenza di memoria familiare, mi ha colpito. Persino mia madre, che aveva vissuto con i nonni per diversi anni dopo il matrimonio, mi ha confermato di non aver mai saputo che Diego avesse partecipato alla guerra del 1915-18. In casa, quel periodo non era mai stato oggetto di discussione.

Mosso dalla curiosità, ho deciso di ricostruire la storia di mio nonno, utilizzando gli archivi civili e militari oggi disponibili online. Con mia grande sorpresa, sono riuscito a raccogliere molte informazioni, al punto da volerle trasformare in un racconto, che ora condivido con voi. Tutti i fatti, le date, i luoghi e la maggior parte dei personaggi e delle ambientazioni sono reali. Spero che apprezzerete questo viaggio nella storia della mia famiglia.


Redipuglia, 5 luglio 1939

Di là dai grandi occhi, delle curve labbra, dai riccioli,
rilievi sul coperchio d'oro del nostro esistere,
un punto tenebroso che viaggia come il pesce
nella bonaccia mattinale del mare, e tu lo scorgi:
sempre un vuoto, dovunque, con noi. 

(Ghiorghios Seferis. Il Re di Asine) 


Diego chiuse la porta di casa e uscì silenziosamente sul viale Montegrappa nel fresco della notte estiva, incamminandosi verso il ponte della Vittoria. Non era ancora l'alba del 5 luglio 1939, un mercoledì. 

Si sfilò la giacca della divisa da ferroviere, l'appese a un dito e se la drappeggiò sulla schiena per apprezzare l'aria fresca della notte, mentre camminava a passo svelto incrociando solo qualche barrocciaio diretto al centro della città. Dopo il ponte, la mole della Stazione Centrale illuminata dalle luci notturne l'aspettava come ogni mattina: ma questa mattina era diversa da tutte le altre, e non solo perché era quella del suo quarantesimo compleanno.

Ripensò all'incontro di due settimane prima, al bar San Marco. Aveva dovuto scortare un carico di materie prime dai magazzini della Centrale al lanificio Campolmi in Santa Chiara, e tornando verso la stazione si era fermato per prendere un caffè e un'acqua minerale. Mentre stava al banco si era sentito toccare sulla spalla: si era girato un po' infastidito - non gli era mai piaciuto sentirsi toccare da altri e per di più senza preavviso -  per trovarsi davanti Pietro. 

Un sorriso e un abbraccio; erano stati entrambi commilitoni e avevano condiviso mesi di addestramento militare a Firenze per poi finire sul fronte in luoghi diversi, Diego sul Grappa e Pietro sul Piave. Dopo la guerra erano entrambi entrati nella pubblica amministrazione: Diego in ferrovia e Pietro alle poste.

I soliti convenevoli - la famiglia, i figlioli, le mogli, il lavoro - per poi finire a rammentare le comuni conoscenze, quasi tutte del periodo della guerra. 

"L'altro giorno sono stato a casa de' Melani, a portare un'altra delle solite comunicazioni" esordì Pietro.

"Ancora? rispose Diego.

"Sì, 'un la finiscono più d'arrivare, 'ste buste, e dai Melani ci sono voluto andare io di persona. Dall'inaugurazione del novo cimitero della Vittoria a Redipuglia, a settembre dell'anno scorso, i' ministero della Guerra ha pensato bene di dare notizia a tutte le famiglie de' caduti della nova collocazione de' resti. E fanno peggio secondo me: leggere le lettere fa ricordare, quando invece sarebbe meglio dimenticare." Pietro mando giù il suo caffè con un sospiro.

"E dunque ai Melani icché t'hai recapitato? Tu lo sai?" 

"Lo so perché la Miria la lettera l'ha aperta davanti a me, e 'un ti dico che lagrime versava mentre leggeva, povera vecchia. Pare che i resti di Gino siano stati da poco traslati lì, nel novo sacrario voluto dal Duce."

"Ma icché hanno fatto, hanno ricostruito il vecchio cimitero?" si informò Diego.

"Altro che ricostruito! Dice che hanno fatto un monumentone, con dentro più di centomila caduti, una specie di scalinata con dentro ciascun gradino migliaia di morti elencati per nome. Gino evidentemente l'è uno di questi nomi. Pare che il Duce stesso abbia voluto che i ragazzi del 99 fossero sepolti lì."

"Si spera che 'un ci sia mai più bisogno di monumenti così" commentò Diego, e scosse la testa come per scacciare un insetto fastidioso.

Si erano salutati subito dopo, ma un tarlo si era insinuato nei pensieri di Diego. Quella notte aveva sognato quella scalinata che non aveva mai visto, e una sorta di necessità aveva cominciato a farsi strada nei suoi pensieri, fino a trasformarsi in un desiderio insopprimibile, figlio di un passato che, nonostante gli anni trascorsi, si rifiutava di sbiadire. Doveva andare a Redipuglia. 

Certo non poteva dirlo all'Umberta, gli avrebbe dato di matto: un padre di famiglia che parte e si fa dodici ore di treno da un capo all'altro dell'Italia solo per visitare un cimitero di guerra... Così aveva elaborato una strategia per scomparire una giornata intera, proprio nel giorno del suo compleanno, complice il collega Cesare che aveva creato per tempo un ordine imperativo di servizio che lo richiedeva presente per l'intera giornata del mercoledì 5 luglio a Pistoia, dove avrebbe dovuto partecipare a una riorganizzazione del magazzino dei materiali rotabili. Un "lavoro" che avrebbe coperto la sua assenza per tutta la giornata e che - confidando nei treni in orario sbandierati dalla propaganda del Partito - gli avrebbe consentito di portare a segno il suo progetto senza destare sospetti.

Immerso in questi pensieri entrò nella stazione, salutando rapidamente il collega alla biglietteria e fece svelto le scale dal tunnel al terzo binario, quello della Direttissima per Bologna: il treno di lì a poco arrivò e si fermò, stridendo nella luce livida dell'alba estiva.

Salì insieme ai pochi passeggeri e si sistemò in uno scompartimento vuoto. Dal finestrino lo sguardo corse alle propaggini della Calvana: da Poggio Secco dove era nato e dove vivevano i suoceri, alla chiesa di Santa Cristina dove era stato battezzato fino a intravedere tra gli alberi il Convento dei Cappuccini in cui si era sposato, un giorno di novembre di quindici anni prima.

Era un matrimonio felice. Umberta lo aveva colpito fin dalla prima volta che l'aveva incontrata mentre prendeva l'acqua alla fonte della Rimpolla: si erano piaciuti, si erano aspettati, si erano voluti, si erano amati, e dal loro amore erano nati due bei figlioli. Erano stati insieme anche nei dieci anni del suo trasferimento alla stazione di Pistoia, per poi tornare a Prato nel '35, dopo l'inaugurazione della nuova Stazione Centrale, che lo aveva visto promosso al nuovo ruolo di responsabile del magazzino merci varie o capopiazzale come lo chiamavano i facchini. 

A quel punto avrebbe voluto mettere su casa per davvero: non in affitto, come erano stati fino ad allora, ma comprandone una o addirittura costruendola, come aveva suggerito un mezzano che proponeva un certo terreno a due passi dal ponte Petrino. D'altronde i soldi lui e l'Umberta li avevano risparmiati centesimo su centesimo, e potevano ormai permettersi una casa tutta loro: forse anche Quirino - il fratello maggiore - sarebbe stato della partita, e le case sarebbero diventate due.

Ah, se babbo Vincenzo avesse potuto vederlo! Lui, che per tutta la vita era stato costretto a convivere con genitori e suoceri in posti più simili a stamberghe che a vere abitazioni! Con quel suo sorrisetto e i modi disincantati da gentiluomo mancato, avrebbe di certo commentato che costruirsi una casa propria, su un terreno di proprietà, era una cosa da signori più che da figli di contadini, e che suo figlio Diego a stare in ferrovia aveva messo su delle manie di grandezza...

Silenziosamente, il treno prese a correre, lasciando alle spalle la stazione per addentrarsi nella val di Bisenzio e poi di galleria in galleria verso Bologna e poi Padova. Il rumore del treno sulle rotaie lo cullava con un suono cadenzato che gli fece pensare al rumore di centinaia di gambe in marcia, e d'improvviso si trovò a ricordare quel pomeriggio del giugno 1917 nella piazza d'armi di Rovezzano, di fronte alla caserma dei Lupi di Toscana.

L'esercitazione era appena terminata, e lui si era messo in disparte, seduto su una cassa di legno abbandonata su un lato del vasto piazzale in attesa di rientrare nelle camerate, mettendosi a pulire il moschetto e sbocconcellando nello stesso tempo un pezzo di pane col formaggio. Aveva sempre una fame rabbiosa dopo le marce, ed essere affamato lo metteva di malumore. Era da pochi giorni a Rovezzano, e la situazione gli pareva come quello che si sapeva della guerra: cupa e destinata a peggiorare ancora.

Dal gruppo dei coscritti rimasto in mezzo allo spiazzo si era staccato un fante che con passo deciso si era diretto verso di lui, mettendoglisi a gambe larghe proprio davanti e apostrofandolo con tono scherzoso: "O te! Icché tu fai, il solitario? 'Un vorrai mica diventare invisibile, eh?"

Diego rispose senza nemmeno alzare lo sguardo: "Fo solo il mi' dovere. Mi sa che c'è poco da scherzare, qui."

L'altro rispose ridendo. "Ah, guarda, tu sfondi un uscio aperto, ho bell'e capito quanto la sia dura e son du' giorni soli che sto qui. Ma tu lo sai com'è; se 'un ci si mette un po' di spirito questi mesi saranno un mortorio che 'un finisce mai, parranno anni." 

A quel punto si mise a sedere sulla cassa di legno, accanto a Diego, e soggiunse: "Come tu ti chiami, compagno di sventure?"

Diego rispose esitando un po': "Diego. Diego Faldi. Classe 1899."

Gino allungò la mano e replicò: "Gino Melani, anch'io del '99. Mi fa piacere fare la tu' conoscenza, Diego."

Diego finalmente alzò lo sguardo e vide un viso sorridente con due grandi occhi scuri, incorniciato da quello che restava di una chioma che prima della tosatura doveva essere stata ricciuta, e porse anche lui la mano senza troppo entusiasmo. "Piacere mio, Gino".

Gino replicò, osservandolo fisso per un momento: "Senti, 'un te la prendere a male, ma tu mi sembri uno di quei tipi che si portano il mondo sulle spalle. Tutto bene?"

Diego alzò di botto la testa e lo guardò con un’espressione indecifrabile. "Un so come tu fai a essere così... leggero" disse. "Siamo qui a marciare dalla mattina alla sera, a smontare e rimontare in continuazione questi fucili e nemmeno si sa se si riuscirà a portarla a casa, la pelle, da dove ci vogliono mandare. Questa storia l'è più grossa di noi: siamo tutti contadini, operai, artigiani che 'un hanno mai visto nulla fuori dal loro paese... e ora ci mandano a morire per una terra che nemmeno si conosce."

Gino scosse la testa e disse: "O Diego, 'un dico che 'un sia una pazzia, eh. Ma icché si deve fare? Star qui a disperarsi? Io la vedo così: tanto vale campare alla giornata, fare quello che ci tocca e, quando si pole, godersi quei du' momenti. Come ora, che si sta seduti tranquilli senza nessuno che ci grida dietro."

Diego a quel punto soggiunse: "Forse t'hai ragione te… Ma 'un riesco a smettere di pensare a cosa potrebbe succedere. Ho una famiglia che fa conto su di me. Il mi' fratello maggiore è anche lui al fronte, il mi' babbo è quasi anziano ed avrebbe bisogno di me… E poi ho una ragazza con cui mi scrivo, si chiama Umberta… 'un so nemmeno se la mi pensa ancora."

Gino sorrise e lo sbirciò con aria sorniona: "Ora sì che si ragiona! Una ragazza, dunque? E magari anche bellina! Te lo dico io, Diego: quando tu torni a casa, codesta Umberta sarà lì ad aspettarti. Alle donne gli garbano i soldati, specialmente quelli che tornano vincitori. E noi si tornerà, ci puoi scommettere!"

Diego sospirò e rispose: "Gino, si spera t'abbia ragione... Ma 'un mi fido della fortuna."

Gino a quel punto gli dette una gran pacca sulla spalla esclamando: "Ecco perché si sta qui, no? Per prepararsi a 'un averne bisogno. E se la fortuna 'un ci aiuta, ci s'aiuta noi l'un l'altro. Che tu ne dici, Diego? Ci si copre le spalle a vicenda, e ce la si farà di sicuro a riportare la pelle a casa!"

Diego fece un mezzo sorriso di fronte a un ottimismo così sfacciato, e convenne: "D’accordo, Gino. Ci copriamo le spalle."

Gino a quel punto fece un sorriso esagerato e facendo il verso alla voce del sergente che sovrintendeva alle cucine sbuffò: "Così tu mi garbi, Faldi!  Ottimo e abbondante!" per poi soggiungere allegro: "Ora, però, s'andrebbe a bere qualcosa allo spaccio prima che arrivi un ufficiale a dirci che s'ha tempo solo per dormire e marciare. Che tu ne dici?"

Diego annuisce. "D’accordo. Ma solo un bicchiere, eh."

Gino: "Uno? 'Un fare il tirchio. Si vedrà… Dai, vieni! Meglio una passera in mano che cento per l'aria!" E facendogli l'occhiolino si diresse con passo sicuro verso lo spaccio in fondo al piazzale.

Mentre il treno esce dall'ennesima galleria, Diego interrompe il ricordo di quel lontano incontro. Davanti ai suoi occhi, la valle del Reno si spalanca sotto ai binari della Direttissima come una finestra aperta su un nuovo mondo: il sole, ancora basso ma già vigoroso, inonda di luce i pendii, preannunciando una giornata di calura estiva. Diego socchiude gli occhi per adattarsi alla luminosità improvvisa, sentendo il treno ruggire sotto di sé: un suono regolare, ipnotico, che lo culla nei suoi pensieri.

"Buondì, signore. Il biglietto, la prego." Il controllore, un uomo robusto sulla quarantina, stava affacciato alla porta dello scompartimento, guardandolo con curiosità.

Diego senza esitare, tira fuori il tesserino ferroviario dalla tasca e lo porge al controllore, che lo esamina e sorride, dicendo: "Vedo che anche lei è dei nostri! Mi scusi ma non avevo notato il distintivo. Dove si reca di bello?"

Diego sorride leggermente, rimettendo via il tesserino. "Sì, anch'io sono delle ferrovie, presto servizio a Prato Centrale. Oggi sono diretto a Redipuglia... una ricorrenza particolare."

L'uomo alza le sopracciglia, interessato. "Redipuglia, dice? È una bella tirata, se la compie in una giornata. Qualcosa di speciale?"

"Mi reco a rendere omaggio a un vecchio commilitone. È stato traslato di recente nel sacrario."

"Comprendo... Un viaggio importante, dunque. Ebbene, la linea è buona, e se tutto procede senza intoppi, giungerà a Padova in orario. Da lì vi sono coincidenze abbastanza frequenti verso Gorizia con fermata a Redipuglia. Controlli l'orario lì, ma ritengo che arriverà ben prima di mezzogiorno."

"La ringrazio dell'informazione. Sì, spero di giungere prima che faccia troppo caldo... il sole oggi promette d'essere inclemente. D'altronde siamo in luglio."

L'uomo sorride. "Eh, già, la giornata si prospetta torrida. Mi raccomando, si porti dell'acqua, ad ogni modo la stazione è vicinissima al sacrario, non dovrà camminare troppo sotto la canicola."

Diego annuisce. "Ottimo consiglio, grazie. Lei è stato in quei luoghi?"

L'uomo sorrise. "Vi sono stato lo scorso anno a settembre, proprio in occasione dell'inaugurazione, col treno dei gerarchi che giungeva da Roma. È un luogo che lascia il segno: di fronte a un monumento così non si può che restare in silenzio, e tutto quel silenzio ti colma come nient'altro. Ma vi sono anche delle buone osterie lì attorno, nel caso le venisse appetito dopo la visita!"

Diego sorrise appena. "Forse vi farò un pensiero."

"Bene, allora buon viaggio, collega. E che la sua visita sia serena."

"La ringrazio, buon proseguimento anche a lei."

Presto, i tetti rossi e le torri di Bologna circondarono i binari. La stazione si annunciò con un concerto di metallo, fischi e stridore di freni. Fuori dal finestrino, altri convogli scivolavano silenziosi sui binari paralleli, componendo un panorama in continuo mutamento.

Diego osservò il viavai frenetico di passeggeri che scendevano e salivano frettolosamente, alcuni con valigie pesanti, altri con solo qualche borsa leggera. La sosta, seppur breve, bastò a riempire l'aria di voci concitate e richiami dei controllori.

Dopo pochi minuti, un fischio acuto annunciò la ripartenza. Il treno riprese la sua corsa inesorabile verso nord, in direzione di Padova. Mentre il convoglio guadagnava velocità, allontanandosi dalla città emiliana, Diego si trovò inevitabilmente a confrontare questo presente brulicante di vita con i ricordi di un passato ormai lontano.

Allora, nel 1917, viaggiava su una vecchia tradotta a vapore, con i vagoni pieni di giovani soldati. La macchina sbuffava e arrancava da Porretta, combattendo contro le montagne stesse, inerpicandosi con fatica. Il fumo denso invadeva i vagoni aperti, e l’odore di carbone bruciato si mescolava al sudore di centinaia di coscritti. Ognuno di loro portava con sé la paura e l’incertezza, sapendo che quei binari li avrebbero condotti verso il Piave, verso il Grappa, verso la morte.

Adesso, invece, il treno correva veloce e sicuro, spinto dall’elettricità invisibile e silenziosa che solcava i cavi sospesi sopra i binari. La modernità aveva levigato gli spigoli del tempo; eppure, in quell'aria tersa del mattino, Diego avvertiva ancora il peso di quei giorni lontani, come un’eco che non si spegneva mai del tutto.

Il treno lasciò Bologna alle spalle, e la pianura padana si stese davanti a lui, vastissima. Il sole, alto nel cielo, bagnava ogni cosa con la sua luce dorata. Frutteti, campi di grano e mais si allungavano a perdita d’occhio, interrotti solo da filari di pioppi e qualche cascinale antico, le cui pareti screpolate sembrano vibrare nel calore. Il paesaggio era uniforme, punteggiato qua e là da piccoli borghi e fattorie isolate, ma non privo di una sua serena bellezza. La terra coltivata era verde e rigogliosa, un mosaico di colori che ondeggiava sotto la brezza leggera.

Diego osservava la pianura con occhi antichi, ricordando il senso di spaesamento di allora, quando tutto sembrava estraneo e ostile. Oggi, quella stessa terra gli appariva più familiare, ma non meno misteriosa. La storia, come il treno, proseguiva il suo cammino inesorabile, lasciandosi alle spalle uomini e ricordi, ma portandoli sempre con sé, come passeggeri di un lungo viaggio che non conosce fine. Cullato dal rumore sempre uguale, Diego ripensò all'arrivo a Padova, nel novembre del 1917.

La tradotta a vapore aveva arrancato fino alla stazione con un lamento metallico, simile a quello di un animale ferito. Non appena erano scesi, la confusione li aveva travolti come un’onda in piena. Le grida degli ufficiali, il rumore dei camion che arrancavano fuori dalla stazione, il vapore caldo che avvolgeva i vagoni e la folla di soldati accalcati in un miscuglio di uniformi, fucili e zaini. Diego ricordava il fumo che bruciava negli occhi, il sudore che impregnava le divise, nonostante fosse novembre.

Lui e Gino erano stati gettati in quel caos insieme, quasi senza sapere dove andare o cosa fare. Gli ordini arrivavano frammentati, i soldati erano dispersi tra i binari e i piazzali. Avevano trovato infine la loro destinazione: il 3° Reggimento Fanteria di Marcia, un nome che ancora ricordava come un marchio del destino.

Gino era al suo fianco, sempre con il sorriso sulle labbra, anche quando avevano capito che il peggio doveva ancora venire. Erano stati assegnati a un contingente di rinforzo diretto al Monte Grappa, dopo la disastrosa rotta di Caporetto. Quattro giorni di marcia li aspettavano, quattro giorni tra il freddo, il fango e la stanchezza che si faceva sentire ad ogni passo.

La partenza da Padova era stata quasi improvvisa, senza il tempo di rendersi conto davvero di dove li stessero mandando. Attraversavano le strade incolonnati con lo zaino che sembrava pesare sempre di più, chilometro dopo chilometro. Le notti erano brevi, spezzate solo dal rumore distante dei cannoni che risuonavano nella notte come dei tuoni minacciosi.

Il trasferimento a piedi verso il Grappa era stato un tormento. Ogni giorno che passava, i segnali di battaglia si facevano più evidenti. Le strade erano affollate di colonne di soldati, ambulanze trainate da cavalli, e camion pieni di munizioni. A terra, talvolta, si vedevano macerie, frammenti di vite travolte dalla guerra. E sopra di loro, l’eco incessante dell’artiglieria che preparava la strada per il massacro imminente.

Nel corso di quei giorni, Diego aveva sentito crescere dentro di sé un senso di vuoto e impotenza. Anche Gino, per quanto cercasse di mantenere alto lo spirito, non poteva nascondere la tensione che serpeggiava nel gruppo. L'aria era pesante, densa di aspettative e paura. Ogni collina che superavano li avvicinava sempre di più alla linea del fronte, al Grappa, alla carneficina che li attendeva. Si poteva quasi sentire l'odore della polvere da sparo sospeso nell'aria, come un presagio oscuro.

Arrivarono infine, stanchi e sporchi, davanti alla muraglia di trincee scavate nella roccia. Il monte Grappa era una bestia imponente, con la sua cima innevata che si stagliava contro il cielo grigio. Diego ricordava di essersi sentito piccolo, insignificante, come se il mondo intero stesse crollando su di lui. Ma c’era anche una strana, inspiegabile calma: una rassegnazione al destino che li attendeva.

Nonostante non fossero ancora stati gettati direttamente nella mischia della battaglia e stessero in attesa di assegnazione nelle retrovie, la vita in trincea si rivelò subito un inferno a sé stante. Il freddo era un nemico costante, implacabile. Di notte, il gelo penetrava attraverso gli stracci e le coperte, fino a infiltrarsi nelle ossa. Durante il giorno, una pioggia incessante trasformava le trincee in fiumi di fango, rendendo ogni passo una lotta contro la terra viscida e scivolosa.

Diego ricordava come le loro divise, già logore, si incrostassero presto di terra, sangue e sudore. Non c'era scampo dalla sporcizia: le mani, il viso, persino il cibo era impregnato di quella melma che sembrava impossibile da evitare. I topi correvano tra le gambe dei soldati, più audaci ogni giorno, banchettando con i cadaveri dimenticati nelle fosse d’acqua e fango. Anche le armi diventavano delle zavorre che ti trascinavano giù, difficili da pulire e perfino da impugnare.

L'orrore era ovunque. I feriti venivano trasportati su barelle improvvisate, i corpi mutilati ammassati senza ordine. Diego vedeva passare uomini con volti segnati dalle cicatrici, arti mancanti, e sguardi vuoti. Alcuni, coperti da bende sudice, non sopravvivevano nemmeno al trasporto, mentre altri gridavano di dolore sotto il peso della morfina insufficiente. I suoni delle urla, dei lamenti soffocati e del crepitio delle esplosioni lontane accompagnavano ogni momento della giornata.

Il tempo sembrava sospeso. Ogni giorno era interminabile, una successione di ore congelate tra il fango e il terrore. Non c’era riposo nelle trincee, solo una lenta e costante attesa del peggio. Si dormiva quando si poteva, schiacciati l’uno contro l’altro per il calore, sempre pronti a rispondere agli ordini di un ufficiale che poteva chiamare da un momento all’altro.

La morte era una compagna silenziosa, onnipresente. Chi tornava dalla prima linea raccontava che i compagni cadevano attorno a loro senza avvertimento: un colpo di mortaio, una pallottola vagante, e il corpo a fianco si accasciava nel fango, senza nemmeno il tempo di emettere un ultimo respiro. Le vite si spegnevano come fiammelle al vento, e i caduti venivano sepolti rapidamente, e senza cerimonie, nella stessa terra fangosa che li aveva accompagnati negli ultimi giorni di vita.

In quel periodo, Diego si sentiva come intrappolato in un incubo senza fine, un mondo dove ogni giorno diventava una lotta non solo per la sopravvivenza fisica, ma anche mentale. Anche Gino, il suo commilitone sempre così allegro e ottimista, cominciava a perdere quella scintilla che lo aveva reso così diverso dagli altri. Entrambi sapevano che, presto o tardi, sarebbero stati chiamati nelle linee più avanzate, dove l’orrore sarebbe stato ancora più crudele.

La mattina del 21 dicembre del 1917 - un venerdì - seppero di essere stati finalmente assegnati al 40° Reggimento Fanteria della Brigata Bologna, che difendeva il fronte lungo il crinale gelato del monte Asolone. Era già in corso da diversi giorni una battaglia, la "battaglia di arresto" destinata a bloccare sul fronte del Grappa le unità degli austriaci. La Brigata Bologna era una di quelle che aveva avuto più perdite in questa e altre battaglie, e aveva necessità urgente di rimpiazzi.

In un campo fangoso, sotto un cielo grigio, si trovarono così schierati sull'attenti, in file ordinate. Davanti a loro stava il maggiore Bazzano: un uomo sulla quarantina, con il volto segnato dalle battaglie e gli occhi duri come la pietra che era salito sopra una cassa di legno per farsi vedere e sentire da tutti. La sua voce si levava sopra il vento gelido, in un discorso destinato a infondere ardimento ai giovani militi davanti a lui, molti dei quali novelli alle armi.

"Soldati della Brigata Bologna, figli d'Italia! Vi parlo non come il vostro comandante, ma come un milite tra militi. Questa brigata, la nostra brigata, è passata attraverso le fiamme del Flegetonte. Il Carso, il Tagliamento... terre imbevute del sangue dei nostri fratelli, commilitoni in questo reparto. Ottomila uomini. Ottomila eroi, caduti non per vana gloria, ma per la libertà, per l'onore della nostra Patria!"

Si schiarì la voce, che assunse un tono più grave, mentre alzava lo sguardo per abbracciare idealmente le file di volti giovani davanti a lui.

"Siamo stati percossi, è vero. Ma non siamo infranti. Ogni colpo che ci ha ferito ci ha temprato. Ogni caduto è un giuramento che non deve andare perduto. Noi siamo i rampolli di quegli uomini, e abbiamo il sacro dovere di perpetuare la loro pugna. L'Italia abbisogna di noi ora più che mai, e noi non possiamo tradirla."

Il bastone che teneva in mano colpì la cassa di legno con un suono secco, come di moschetto. Alzò lo sguardo verso le vette come a valicarle in volo, e proseguì: "Voi siete giovani, forse atterriti, forse dubbiosi. Ma vi dico questo: nelle ore che verranno, scoprirete di avere in voi una forza che nemmeno immaginate. Guardate attorno! Questi sono i vostri fratelli d'armi. Insieme, saremo come un baluardo d'acciaio. Non v'è trincea, non v'è nemico che possa fiaccare l'animo di chi pugna per la sua terra, per la sua gente!"

Le sue parole risuonarono per un attimo, poi riprese con voce più solenne: "Il nostro nemico è forte, è vero, ma noi siamo più forti. Non perché siamo più numerosi, non perché abbiamo più armi, ma perché abbiamo qualcosa che loro non possono comprendere: il cuore italico. E quel cuore pulsa per la libertà, pulsa per l'Italia che vagheggiamo per i nostri figli e per i figli dei nostri figli."

"Rammentate, soldati: la gloria non appartiene a chi vive nel timore, ma a chi affronta il periglio con ardimento e fermezza. Avanzate con il capo eretto, con il pensiero dei nostri caduti nel petto, e con la certezza che, se dobbiamo cadere, lo faremo da uomini liberi!"

Nella foga dell'arringa aveva levato un braccio come a cogliere qualcosa nell'aria. Abbassando il braccio, fissò la truppa con uno sguardo intenso, prima di concludere con voce salda e solenne.

"Per l'Italia! Per la Brigata Bologna! Avanti, senza tema, poiché dietro di noi v'è l'avvenire della nostra nazione. E quell'avvenire, soldati... lo vergheremo noi con il nostro valore! Urrà per la Brigata Bologna! Urrà per l'Italia!"

A quel punto la truppa rispose con quello che a Diego sembrò un unico boato, rompendo le file subito dopo per prepararsi alla partenza imminente verso la prima linea. 

"Mah", fece Gino, mettendosi a sedere su una pila di traversine accumulate su un lato del vasto spiazzo.

"Mah che?" rispose Diego, sedendosi accanto a lui.

"Tu l'hai sentito, Diego? 'Un l'hai sentito il discorso? Tutta quella roba sull'onore, la gloria e la patria... la suona bene, vero? A sentir ciarlare il maggiore, pare quasi che si va a marciare verso l'immortalità, con la testa ritta e il core gonfio d'orgoglio. Ma sai una cosa? Quelle parole, belle come sono, nascondono una verità che nessuno di noi vorrebbe ammettere."

"E che verità sarebbe?" replicò Diego, incupito.

Gino sputò nel fango davanti agli scarponi. "Che 'un c'è nulla di glorioso in questa guerra, Diego. Nulla. Solo morte, disperazione e mota. Loro ci parlano di patriottismo come se fosse un gonfalone da sventolare, come se fosse la stella polare che ci guida attraverso la burrasca. Ma tutto quello che vedo io l'è un'enorme trappola. Una trappola che si ciba d'ómini come noi... ragazzi, babbi, mariti. Ci tengono qui, ci dicono che siamo eroi, ma alla fine siamo solo carne pel macello."

Gino tacque un attimo, e poi continuò in tono più amaro: "Ci dicono che siamo qui per difendere l'Italia, ma quale Italia? La nostra patria l'è fatta di campi, di famiglie, di gente che sgobba e campa in pace. 'Un è fatta di trincee e bombe. Ci hanno trascinato qui, lontano da casa, per combattere una guerra che nessuno di noi ha scelto. Ci hanno dato un fucile, ci hanno messo un elmetto in capo e ci hanno detto d'andare avanti, senza nemmeno spiegarci perché. Parlano di difendere la libertà, ma io mi sento più prigioniero qui che in qualsiasi altra parte del mondo. E magari anche gli austriaci dall'altra parte stanno uguale a noi."

Diego annuì lentamente e commentò: "Già... e ogni volta che qualcuno casca, dicono che l'è per una giusta causa. Ma nessuno di noi sa davvero cos'è questa causa."

"Ecco, l'hai detto," replicò Gino. "Una giusta causa... Eppure, 'un riesco a vedere altro che vite giovani spezzate, famiglie distrutte e un futuro che ci sfugge dalle mani. Questa guerra... questa guerra 'un ha senso. L'è solo un vortice che ci risucchia tutti. E quando ne usciremo, se mai ne usciremo, icché ci resterà? Le belle parole del colonnello? O solo ricordi di morte e distruzione?"

A quel punto Gino guardò Diego fisso negli occhi e proseguì: "Diego, 'un voglio morire per una bandiera, per un'idea che 'un capisco nemmeno. Voglio campare, voglio tornare a casa. Voglio rivedere la mi' famiglia, trovarmi una ragazza, ballare e cantare stornelli; voglio vedere i' sole levarsi senza il chiasso dei cannoni in sottofondo. Questo l'è quello che conta per me. Non l'onore, non la gloria... solo la vita. La guerra... la guerra l'è solo una tragedia. E io 'un voglio essere l'ennesima vittima."

"Si spera solo di sopravvivere, Gino. Si spera di poter tornare a casa," replicò Diego, sommessamente.

Il treno rallentò lentamente, i freni cigolarono appena, e infine si fermò con un ultimo sussulto alla stazione di Padova. Diego guardò fuori dal finestrino mentre l'ampia piattaforma della stazione si apriva davanti a lui, illuminata dalla luce del mattino. Il sole era ormai alto nel cielo e il caldo si faceva già sentire, ma un vento leggero, quasi rinfrescante, spirava tra i binari. Le porte si spalancarono con un soffiare d'aria compressa, liberando nugoli di persone che si affrettarono lungo le banchine.

Diego si alzò dal suo sedile, afferrò giacca e cappello e, con un passo misurato ma deciso, si diresse verso l'uscita del vagone. La stazione era animata da un via vai di viaggiatori, commercianti e giornalai che gridavano i titoli del giorno. Diego, con una certa abitudine, si fece largo tra la folla fino a un chiosco di giornali. Comprò una copia e si fermò per un momento ad osservare i titoli di prima pagina: notizie di tensioni politiche e militari che si facevano sempre più pressanti: sembrava che il mondo non riuscisse proprio ad avere pace, una nuova guerra era in arrivo.

Con il giornale sottobraccio, si spostò verso una bancarella di vivande. Il profumo di caffè e pane fresco gli riempì le narici. Ordinò un panino con prosciutto e una tazza di caffè latte, cercando di calmare la fame che lo tormentava fin da quando era partito quella mattina presto. Mangiare qualcosa, anche se in fretta, gli diede un momentaneo sollievo e una breve pausa dai pensieri cupi che lo avevano accompagnato lungo il viaggio.

Controllando l'orologio della stazione, Diego si rese conto che il treno per Gorizia era già pronto sul binario opposto. Si affrettò verso la coincidenza, sentendo il richiamo metallico del capotreno. Salì a bordo e si trovò un posto vicino al finestrino in uno scompartimento che, per il momento, era vuoto.

Appena il treno iniziò a muoversi, Diego si accorse di una figura che si avvicinava lungo il corridoio: una donna slanciata sulla quarantina, vestita con un largo cappello di paglia, un abito di cotone leggero a fiori e delle scarpe basse con un piccolo tacco, tutto di un'eleganza sobria ma evidente. Aveva capelli biondi ordinati in una pettinatura semplice, e occhi chiari che spiccavano sul suo viso delicato. Portava una piccola borsa e sembrava sicura di sé, eppure c’era una gentilezza nei suoi tratti che non sfuggì a Diego. I loro sguardi si incrociarono per un istante.

"È libero qui?" disse la donna, con un evidente accento straniero.

Diego restò un attimo interdetto. "Ma certo. Si accomodi, prego"

La donna entrò nello scompartimento e si sedette di fronte a lui, sistemando con cura una piccola borsa accanto a sé. Per un attimo, ci fu solo il rumore regolare delle ruote del treno che correvano sui binari.

"Anche lei va a Gorizia?" disse con tono leggero.

Diego la fissò un istante negli occhi e disse: "No, scendo a Redipuglia. Sono diretto al sacrario... per una ricorrenza."

"Capisco. Anch'io vado a Gorizia per una visita familiare... è da tempo che non torno. Non è un viaggio facile, ma è necessario." 

L'espressione del viso cambiò leggermente, come se il richiamo a Redipuglia avesse smosso qualcosa dentro di lei. Diego guardava fuori dal finestrino, le parole della donna aleggiavano ancora nell'aria, appena sopra il rumore del treno. Si voltò verso di lei e vide la malinconia nel suo sguardo.

"Mi chiamo Erzsébet. Elisabetta, in italiano" disse. "Sono ungherese, ma vivo in Italia da molti anni. Mio marito... lo persi durante la guerra. Non era un soldato di carriera, solo un uomo comune, come tanti altri. Eravamo sposati da poco e non abbiamo avuto figli, e questa guerra ci strappò alla nostra vita normale per gettarci in un incubo. Ogni tanto torno a Gorizia, dove vive la famiglia di mio marito. Molti di loro non ci sono più ormai; ma mi sento ancora vicina a lui in qualche modo, quando sono lì."

"Dove ha combattuto suo marito?" chiese Diego.

"Sul monte Grappa" disse Erzsébet con un sospiro. "Gli hanno anche dato una medaglia al valore."

Diego sentì un brivido attraversargli la schiena. Le parole di Erzsébet riecheggiavano la sua stessa storia. La guerra aveva lasciato ovunque cicatrici. Spesso insanabili.

"Anch’io ho combattuto sul Grappa... ma dalla parte italiana, ovviamente" replicò Diego. "Eppure, in quei momenti, non sembrava importare da quale lato fossimo. C'era solo sangue, neve, e freddo. E... perdita."

Si fermò un attimo, come per raccogliere i suoi pensieri. Erzsébet lo guardava con occhi comprensivi, ma non invadenti. Era come se condividessero un silenzio fatto di cicatrici che non avevano bisogno di ulteriori spiegazioni.

"Avevo un amico, Gino Melani" continuò Diego piano. "Era un ragazzo del '99 come me, quando siamo partiti non avevamo nemmeno diciotto anni. Insieme ci siamo fatti forza in quell’inferno. Gino era uno di quelli che sapevano farti sorridere anche nelle situazioni più disperate... un’anima allegra, scherzosa, ma con un cuore grande. Era quel tipo di persona che non ti faceva sentire solo, neanche nelle notti più gelide in trincea."

Fece una pausa, il ricordo di Gino era vivido, come se fosse ancora lì, accanto a lui.

"Era l'antivigilia di Natale del 1917. Ci avevano mandati sul monte Asolone, in uno di quei maledetti assalti. La neve copriva tutto, eravamo fradici e congelati fino alle ossa. I reticolati austriaci sembravano una ragnatela mortale, e dovevamo attraversarli sotto il fuoco nemico. Eravamo un piccolo plotone, mandati come carne da macello a prendere una posizione nemica."

Sospirò profondamente, gli occhi persi nel vuoto.

"Ricordo che stavamo avanzando in silenzio, quando all’improvviso sentii un rumore sordo, come di un sasso che cadeva sulle pietre... e poi la vidi. Una bomba a mano era caduta accanto a noi. Prima che potessi rendermene conto, Gino mi afferrò per il braccio e mi spinse di fianco, gridandomi di restare giù. Lui... lui tentò di rilanciare via la bomba."

Diego chiuse gli occhi per un momento, rivivendo quell'istante terribile. Continuò a voce bassa, come se parlasse a sé stesso.

"Poi... poi ci fu l’esplosione. Un boato che mi assordò completamente. Quando riaprii gli occhi, Gino... non c’era più. Era lì, davanti a me, steso nella neve, tra i reticolati. Il suo corpo a pezzi, come se fosse stato inghiottito da quell’assurdo vortice di morte. Non potevo crederci... come poteva essere morto lui, proprio lui che aveva sempre trovato un modo per farci sorridere? Quel pendio roccioso e gelido divenne la sua tomba, coperto dalla neve e dal suo sangue. E io... io gli devo la mia vita."

Erzsébet rimase in silenzio, gli occhi chiari spalancati in un’espressione di dolore condiviso. Non c'erano parole da dire, solo la comprensione di chi ha perso qualcuno caro in circostanze tanto assurde quanto crudeli.

Diego continuò, con voce più dura: "Sa, questa guerra... non è stata altro che un macello insensato. Ci hanno mandato a morire come bestie al mattatoio, per conquistare qualche metro di terra che non valeva nulla. Quanti giovani sono morti per niente? Quante famiglie distrutte? E per cosa? Per l'orgoglio di qualche generale, di qualche politico che non ha mai visto una trincea?"

"Non sono mai riuscito a capire come io sia rimasto vivo, mentre lui... lui se n'è andato così. Forse è per questo che sto andando a Redipuglia. Forse è arrivato il momento di affrontare tutto questo, di dare un senso a ciò che sembra non averne mai avuto. Le confesso che non sono mai riuscito a raccontare tutto questo nemmeno a mia moglie, e sono quindici anni che siamo felicemente sposati." 

Erzsébet sembrò fissare un punto invisibile nel paesaggio verdeggiante che scorreva oltre i finestrini. Poi replicò con dolcezza: l'accento straniero conferiva un suono vagamente musicale alle sue parole.

"Ha ragione. La guerra... è solo una macchina di morte che divora vite e lascia dietro di sé solo dolore e distruzione. Non c'è gloria, non c'è onore... solo sangue versato inutilmente. Non troveremo mai risposte a tutto questo. Ma forse... noi possiamo ancora trovare un po’ di pace, un po’ di comprensione. Anche solo nel ricordare chi abbiamo perso. E se posso permettermi, lei dovrebbe raccontare a sua moglie questa storia, non fosse altro per farle sapere a chi deve il suo matrimonio felice."

Il treno proseguiva lungo la linea mentre Diego ed Erzsébet rimanevano immersi nei loro pensieri, ognuno con il peso della propria perdita e delle proprie riflessioni. La conversazione era cessata, sostituita da una pausa carica di significato, in cui entrambi sembravano cercare di elaborare il dolore che avevano condiviso.

Diego osservava Erzsébet, il cui volto, pur mostrando una calma apparente, tradiva un’emozione profonda. Le sue mani si stringevano intorno alla borsa, come se volessero trattenere non solo l’oggetto, ma anche i ricordi e le emozioni che aveva condiviso con Diego. In quel momento, il treno sembrava essere un rifugio, una bolla temporanea di connessione umana in mezzo a un mondo sconosciuto e distante.

Diego, a sua volta, sentiva un’inusuale serenità nel condividere il suo dolore con qualcuno che, pur essendo estraneo, stava sul suo stesso piano. Era come se la sua testimonianza avesse trovato una risonanza sincera in Erzsébet, e quel legame momentaneo, sebbene fragile, portava un senso di inatteso conforto.

Il treno iniziò a rallentare. Diego guardò il suo orologio, e poi il paesaggio fuori dal finestrino, che si stava facendo sempre più familiare. La campagna che aveva visto partire al mattino si era trasformata, ora, in un territorio che indicava la vicinanza della meta.

Il treno si fermò lentamente alla stazione di Redipuglia. Il sole estivo, ora alto e accecante, colpiva il marciapiede e inondava la stazione di una luce dorata. Diego si alzò e Erzsébet fece lo stesso: per un attimo restarono uno di fronte all'altra. Poi, un po' goffamente, si strinsero in un abbraccio silenzioso. Le loro ombre sommate si allungavano sul pavimento della carrozza e sui sedili, proiettate dalla luce estiva che penetrava dai finestrini.

Erzsébet sorrise e disse: "Spero che la sua visita porti pace e conforto. E chissà, magari un giorno troveremo entrambi un po' di serenità in tutto questo caos."

Diego replicò, prendendole istintivamente la mano: "Lo spero tanto anch'io. La sua visita a Gorizia sarà... forse un passo verso la guarigione, proprio come lo è la mia a Redipuglia. Addio, Elisabetta. Le auguro tutto il meglio."

Erzsébet annuì, si rimise a sedere e, con un ultimo sguardo di comprensione e affetto, lo guardò scendere dal treno. Diego si preparò ad affrontare la sua tappa finale.

Quando il treno ripartì, Diego si trovò solo sulla banchina, circondato da un silenzio luminoso. La stazione di Redipuglia era deserta, il calore estivo avvolgeva l’ambiente e si sentiva l'eco dei passi echeggiare nel vasto salone della biglietteria. Uscì nel sole della tarda mattinata, e s'incamminò sulla strada polverosa verso il sacrario, che si intravedeva già oltre le cime degli alberi che fiancheggiavano la strada.

L'aria era ferma, carica di un calore quasi opprimente, e il silenzio attorno a lui sembrava amplificare ogni suo passo sulla strada polverosa. Arrivò al sacrario: il monumento si apriva davanti ai suoi occhi con una maestosità che toglieva il fiato. La struttura si ergeva immensa, bianca sotto la luce accecante, un'enorme scalinata che si arrampicava verso l’alto, in cima alla quale svettavano tre croci. 

Sui gradoni, ripetuta all'infinito, spiccava la parola "PRESENTE", come in un interminabile appello che continuava a risuonare attraverso gli anni.

Alla base si trovavano le tombe dei generali, grandi parallelepipedi di marmo che sembravano pietrificare il ricordo di innumerevoli battaglie. Diego le osservò con riverenza distaccata, consapevole che la loro sorte non poteva eguagliare l'infinita e anonima sofferenza dei soldati semplici. Poi il suo sguardo si perse sulle file di gradinate che si estendevano come onde di pietra, ciascuna riportante i nomi di migliaia di caduti, giovani vite spezzate dal turbine della guerra.

Diego si fermò un momento, colpito dalla vastità del luogo. La grandezza del monumento gli fece provare una sorta di vertigine. Il suo cuore era oppresso dal peso della memoria, ma c’era anche una strana pace in quella vastità silenziosa. Il sacrario, immobile e fermo nel tempo, comunicava un significato profondo che colpiva Diego fino nelle profondità della sua anima. Era come se il monumento stesso stesse facendo un discorso muto, un discorso di morte, sofferenza e una pace troppo tardi raggiunta.

Ripreso il cammino, Diego iniziò a salire le gradinate. I suoi passi lenti e decisi rimbombavano nel silenzio quasi sacrale che lo avvolgeva. Ogni passo gli sembrava avvicinarlo di più al passato, e ogni gradino era un ricordo che risaliva alla superficie. Mentre saliva, il piede colpito durante la guerra tornò a farsi sentire, come se la vecchia ferita rispondesse anche lei all'invocazione della parola "PRESENTE". 

Infine, poco oltre metà della salita, raggiunse la gradinata in cui erano sepolti i caduti il cui cognome iniziava con la lettera "M". Si addentrò lungo il corridoio finché il suo sguardo cadde sul nome tanto atteso.

Le lettere bronzee che lo componevano brillavano sotto il sole al punto che sembravano emanare una luce propria. Diego si fermò, le gambe appesantite, come se tutta la salita fosse stata solo il preludio a quel momento. 

Gino. Il suo sacrificio, la sua morte così tragica e assurda, erano tornati a pulsare nella mente di Diego. Eppure, in mezzo a quel dolore, c’era una calma strana. Le sue mani avevano sfiorato delicatamente il bronzo, il contatto con quelle lettere gli aveva dato un senso di chiusura, come se finalmente avesse raggiunto il luogo dove si poteva far pace con l'inaccettabile.

Sollevò lo sguardo. Sopra di lui, il cielo era un oceano di luce. Il sole splendeva alto e le rondini tagliavano l'aria azzurra con traiettorie leggere, disegnando archi silenziosi nel cielo. Era un paesaggio incredibilmente quieto, come sospeso fuori dal tempo. La quiete sembrava irrealistica, considerando il tumulto che Diego sentiva dentro di sé. 

Eppure, quella pace esteriore faceva contrasto con i timori oscuri che si agitavano in lui: l'Europa era di nuovo sull'orlo della guerra. Il mondo, nonostante tutto quello che avevano già vissuto, sembrava incamminarsi verso la stessa distruzione, verso un'altra spirale di violenza che avrebbe consumato altre vite. Diego si chiedeva come tutto questo potesse ripetersi, come gli uomini non avessero imparato nulla dal passato, come tutto fosse destinato a ripetersi, senza fine e senza scopo.

Lì, in quel luogo sacro, Diego sentì una nuova consapevolezza. Non poteva più fuggire dal suo passato, né nascondersi dietro il silenzio. Doveva affrontarlo, onorarlo, riconoscere ciò che aveva vissuto.

Gino gli aveva insegnato il valore profondo della vita e dell'amicizia, e il coraggio di trovare un sorriso anche nel cuore dell'oscurità. Perché sapeva, Gino, che anche nelle tenebre più fitte la luce, prima o poi, sarebbe tornata a brillare. Era per questo che il suo sacrificio non era stato vano.

Diego si chinò, e le sue labbra sfiorarono con delicatezza le lettere di bronzo che componevano il nome dell'amico. In quel gesto semplice c'era un addio, ma anche una gratitudine infinita. Un tributo a chi, con il suo sacrificio, gli aveva offerto una nuova possibilità di vivere, perché almeno il ricordo di quella vita potesse continuare.

Quando si rialzò, i suoi occhi brillavano di una nuova luce, più limpida e serena. E con voce sommessa, ma carica di forza, mormorò:

"Non siamo mai davvero perduti, finché qualcuno ci ricorda."


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