martedì 25 marzo 2025

L'uomo custode dell'ordine cosmico nella lunetta di San Cassiano di Controni

La lunetta di San Cassiano 

Arroccata nell'antico territorio della Controneria, oggi parte del comune di Bagni di Lucca, la chiesa di San Cassiano di Controni rappresenta uno dei gioielli più antichi della Lucchesia. Le sue radici affondano nel lontano 772 d.C., data della sua prima testimonianza scritta. Edificata durante la dominazione longobarda, probabilmente sopra un preesistente luogo sacro, fu poi rinnovata nel XII secolo secondo i canoni del romanico. La sua posizione privilegiata, panoramica e strategica lungo la via di crinale che univa la valle del Serchio alla montagna pistoiese, la rese un fulcro religioso e sociale per le comunità circostanti. Dedicata a San Cassiano, martire di Imola il cui culto prosperò nei territori longobardi, la pieve conserva intatto un fascino primordiale, visibile nelle sculture della facciata e nell'interno a tre navate scandite da colonne con capitelli cubici.

Sulla facciata, il portale d'ingresso è coronato da una lunetta scolpita che cattura lo sguardo del visitatore: tre figure umane con le braccia protese verso l'alto emergono sotto un arco decorato con motivi floreali. La figura centrale si distingue per due peculiari sporgenze ai lati della testa, forse un copricapo rituale o simboliche "orecchie" tese ad ascoltare il divino. La posa degli oranti, archetipo che riecheggia le antiche incisioni preistoriche della Valcamonica, trasforma le braccia sollevate in un gesto ancestrale di invocazione, un ponte invisibile che unisce la terra al cielo.

Gli oranti di Naquane in Valcamonica 

Questa immagine dell'orante, sorprendentemente persistente nel tempo, in provincia di Prato compare anche nella lunetta dell'abbazia di Santa Maria a Montepiano, dove è addirittura raffigurata una figura femminile che esegue lo stesso gesto rituale. Tale postura richiama pratiche cultuali molto più antiche del cristianesimo: in molte culture precristiane, l'orante era colui (o colei) che, con il corpo, imitava l'atto cosmico di collegamento tra l'alto e il basso, tra il cielo e la terra. Era insomma una figura sciamanica, sacerdotale, chiamata a fare da tramite tra il visibile e l'invisibile.

L'orante donna a Santa Maria a Montepiano 

L'iconografia dell'orante, figura frontale, eretta, con le braccia e i palmi delle mani protese verso il cielo, è infatti antichissima e come tante altre è stata ripresa e reinterpretata anche in ambito cristiano. Il gesto della preghiera con le mani alzate è trasversale a molte culture e religioni, ed è profondamente radicato anche nella tradizione ebraica, come attestano vari Salmi: «Alzate le mani verso il santuario e benedite il Signore» (Salmo 134, 2), o ancora: «Le mie mani alzate come sacrificio della sera» (Salmo 141, 2). È il gesto di Mosè, che durante la battaglia contro gli Amaleciti sostiene il popolo con le mani levate verso il cielo. Nell’iconografia paleocristiana, l’orante è raffigurato nei sarcofagi e nelle catacombe, spesso in ambito funerario, come simbolo di speranza nella vita oltre la morte.

Chiesa e campanile di San Cassiano

A sovrastare le figure della lunetta, sei grandi fiori stilizzati – simili a margherite – si irradiano in modo simmetrico. La loro forma radiale richiama antichi simboli solari, cosmici, vitali, e suggerisce un'intenzionalità simbolica profonda. Il numero sei è carico di significati: nella simbologia sacra, rappresenta l'armonia, l'equilibrio perfetto tra mondo spirituale e materiale (non a caso il mondo, secondo la Genesi, fu creato in sei giorni). Sei è anche numero della creazione ordinata, della bellezza geometrica e dell'unità raggiunta attraverso la diversità.

Il gesto dell'orante che tocca o sostiene questi fiori può essere letto come un atto sacro: l'essere umano che attinge all'armonia celeste e la porta sulla terra, diventando mediatore e custode dell'ordine universale. Un gesto che evoca il mito, la preghiera e la sacralità della natura, ma anche l'idea che il cosmo stesso fiorisca in risposta al contatto con l'umano. Sotto la lunetta, un fregio a intreccio celtico-longobardo simboleggia l'eternità e la connessione tra i mondi. Ai lati del portale, due leoni accovacciati custodiscono l'ingresso: simboli di forza e vigilanza, ma anche di transizione tra dimensioni spirituali. La ghiera dell'arco, decorata con animali fantastici e motivi vegetali, compone un vero e proprio bestiario scolpito, un universo parallelo dove il caos è domato dalla fede.

Intrecci sulla facciata di San Cassiano

La chiesa di San Cassiano, quindi, non è solo un monumento ma un luogo simbolico; ogni dettaglio racconta una storia, ogni pietra parla un linguaggio arcaico e sacro. In epoca medievale, entrare in chiesa significava attraversare una soglia tra visibile e invisibile. Ancora oggi, questo portale ci ricorda che l'essere umano è chiamato a custodire l'armonia del cosmo, ascoltarne il respiro, riconoscere e onorare i segni della bellezza e della vita che ancora oggi fioriscono nel mondo.

I simboli, pur appartenendo a epoche remote, continuano a parlarci con forza. Essi rappresentano energie, tensioni spirituali e aspirazioni universali che, sotto forme diverse, animano ancora oggi la nostra ricerca di senso, bellezza e connessione con il tutto. La figura dell’orante, i fiori solari, gli animali guardiani: nulla è davvero passato, perché queste immagini archetipiche toccano ancora corde profonde dell’animo umano. In un tempo che spesso dimentica le radici, San Cassiano ci invita a ritrovare il filo che ci lega all’universo, e a riconoscere che quei segni antichi vivono ancora – dentro di noi.

"Il simbolo è la migliore possibile espressione di qualcosa di essenzialmente sconosciuto." Carl Gustav Jung, Tipi psicologici


sabato 22 marzo 2025

Resurrezione liquida: la sorgente del Borro di Cavagliano a Travalle

Il Rio Camerella a poca distanza dalla sorgente

Quando si osservano i Monti della Calvana, situati tra Prato e il Mugello, ci si accorge immediatamente di quanto questo massiccio sia diverso dalle altre montagne toscane. Il paesaggio che si presenta agli occhi del visitatore è caratterizzato da un'apparente assenza d'acqua: poche sorgenti in quota e nessun ruscello che scende visibilmente dai pendii. In passato, quando le praterie avevano un'estensione maggiore rispetto a quella odierna, chi attraversava in estate i crinali assolati della Calvana si trovava davanti a uno scenario quasi lunare: vaste distese di praterie pietrose, doline scavate nella roccia e rarissime tracce d'acqua in superficie.

Questa caratteristica peculiare nasconde però una verità affascinante: l'acqua nella Calvana è abbondante, ma scorre invisibile sotto i nostri piedi. I Monti della Calvana rappresentano infatti il secondo complesso carsico della Toscana per dimensioni, superato solo dalle più note Alpi Apuane. La loro formazione geologica, denominata "formazione di Monte Morello" e risalente al periodo compreso tra il Paleocene e l'Eocene medio (circa 66-40 milioni di anni fa), è costituita principalmente da argille e dal caratteristico calcare Alberese. Queste rocce, con la loro particolare composizione, hanno dato origine nel corso dei millenni a un sistema idrologico complesso e articolato.

La Marinella vicino alla villa di Travalle 

Il calcare, elemento predominante del massiccio, agisce come un gigantesco filtro naturale: l'acqua piovana, anziché scorrere in superficie formando torrenti e ruscelli, si infiltra nelle innumerevoli fratture e nelle doline che punteggiano i crinali e i pascoli sommitali. Una volta penetrata nella roccia, l'acqua intraprende lunghi e tortuosi viaggi sotterranei, muovendosi lentamente attraverso cunicoli e gallerie scavate dalla sua stessa azione chimica. Nel corso dei millenni, questo processo continuo ha progressivamente eroso la roccia calcarea, creando un articolato sistema di cavità sotterranee.

Il viaggio dell'acqua all'interno del massiccio prosegue fino all'incontro con strati di roccia più impermeabile o con barriere geologiche naturali, come le marne o altre formazioni meno permeabili che si trovano a quote inferiori. È proprio in questi punti, generalmente posizionati tra i 300 e i 400 metri di altitudine, significativamente più in basso rispetto alla dorsale montuosa principale, che avviene la "risorgenza": l'acqua riemerge in superficie dando vita a sorgenti perenni.

La distribuzione di queste sorgenti non è uniforme lungo tutto il massiccio. Ne sono state censite ben 97, concentrate principalmente nella parte settentrionale e in quella centrale della catena montuosa, molte delle quali situate proprio nella fascia altimetrica compresa tra i 300 e i 400 metri. La parte meridionale, invece, presenta un numero significativamente inferiore di sorgenti, prevalentemente localizzate in prossimità dei fondovalle. Una caratteristica importante di queste sorgenti è la notevole variabilità della loro portata, strettamente legata all'intensità delle precipitazioni. Questa particolarità evidenzia la rapidità con cui l'acqua piovana attraversa il sistema carsico, riemergendo dopo percorsi relativamente brevi ma complessi.

Rio Camerella 

Nonostante la natura carsica del territorio, la densità del drenaggio superficiale nella Calvana è sorprendentemente abbondante rispetto ad altre aree con caratteristiche geologiche simili. Tuttavia, solo alcuni dei piccoli torrenti che discendono dalla dorsale mantengono un flusso perenne durante tutto l'anno, mentre la maggior parte si secca nei periodi di siccità prolungata; tutti, in generale, vengono alimentati dalle risorgenze presenti a varie quote, alcune delle quali particolarmente copiose.

Tra le tante sorgenti della Calvana, una spicca in modo particolare: quella del Borro di Cavagliano a Travalle. Qui l’acqua, dopo aver percorso il suo misterioso viaggio sotterraneo, riemerge con tale forza da generare l’intero Rio Camerella, che dopo un breve corso va a gettarsi nella Marinella. Dal punto di vista idrogeologico, la sorgente del Borro di Cavagliano presenta una conformazione peculiare: una bocca principale alimenta direttamente il rio, mentre un serbatoio creato artificialmente è collegato a un antico lavatoio e a una presa d'acqua. Questa doppia struttura ha permesso, nei secoli, un uso razionale e sostenibile della risorsa: da un lato, il nutrimento continuo del corso d’acqua; dall’altro, il supporto alle attività quotidiane della comunità locale.

La sorgente del Borro di Cavagliano 

Grazie alla sua portata costante, anche nei periodi più siccitosi, la sorgente è stata per secoli un riferimento vitale per gli abitanti della zona, garantendo acqua per uso domestico, agricolo e per l’abbeveraggio del bestiame. La sua importanza è testimoniata dalle opere di sistemazione idraulica realizzate nel tempo, che hanno permesso di ottimizzare la fruizione della sorgente senza comprometterne l’equilibrio naturale.

Ma la sorgente non è solo una risorsa idrica: la sua storia è intrecciata a un universo culturale e simbolico di rara suggestione. A pochissima distanza si ergono antiche murature che racchiudono una collinetta lobiforme di origine quasi certamente artificiale. Oggi questo luogo ospita la casa colonica nota come "podere Castelluccio", ma alcuni studiosi ritengono che queste strutture costituissero originariamente la base di un tempio probabilmente dedicato al culto delle acque. La presenza di un edificio sacro in prossimità di una sorgente così abbondante non è casuale. Il culto delle acque rappresenta infatti uno degli elementi più antichi e persistenti nelle religioni mediterranee, e in particolare nella cultura etrusca, che aveva sviluppato una profonda connessione spirituale con le manifestazioni naturali dell'acqua.

Il lavatoio-abbeveratoio 

Le sorgenti, in particolare quelle che emergevano misteriosamente dal sottosuolo dopo percorsi invisibili attraverso le viscere della terra, erano infatti considerate manifestazioni divine, punti di contatto tra il mondo terreno e quello ctonio. L'acqua che sgorgava dalle profondità della terra portava con sé non solo fertilità e vita, ma anche conoscenza e potere purificatore. Non sorprende quindi che attorno a queste sorgenti si sviluppassero luoghi di culto e rituali specifici.

Gli Etruschi, popolo che ha abitato queste terre prima della dominazione romana, avevano elaborato una complessa teologia in cui le divinità legate alle acque occupavano un ruolo primario. Numerose sono le testimonianze archeologiche di culti legati alle sorgenti in tutta l'Etruria, con ritrovamenti di ex voto, strutture rituali e santuari dedicati a divinità acquatiche. A Pizzidimonte, a poca distanza da qui, sono state ritrovati diversi reperti di epoca etrusca collegati a frequentazioni sacrali di questo tipo, mentre la collina del podere Castelluccio, finora, non è mai stata oggetto di indagine archeologica e verosimilmente potrebbe celare altri ritrovamenti dello stesso genere.

Il punto in cui riemerge la sorgente 

Il ciclo delle acque carsiche – che si perdono nel sottosuolo per poi riemergere – ha nutrito, fin dall’antichità, un immaginario legato ai temi della morte e della rinascita. Il viaggio sotterraneo dell’acqua, che scompare nell’oscurità per poi riapparire pura e rinnovata, era interpretato come una metafora del percorso dell’anima nel mondo dei morti e del suo ritorno alla vita. Nelle culture arcaiche del Mediterraneo – e in quella etrusca in particolare – questo ciclo naturale assumeva un significato sacrale. Le sorgenti carsiche venivano viste come varchi tra il mondo visibile e l’aldilà, e non a caso i luoghi sacri sorgevano spesso in prossimità di questi fenomeni.

L’antico tempio di Castelluccio, collocato su una collinetta sopraelevata rispetto alla sorgente, probabilmente rievocava simbolicamente questo viaggio, dall’acqua che risorge dalle profondità ctonie al tempio che si eleva verso la luce. Era un cammino rituale, un’ascesa carica di significati spirituali e di legami con i cicli stagionali e il culto degli antenati, con pratiche di purificazione, riti propiziatori e offerte votive alle divinità delle acque. L’acqua della sorgente – ritenuta rigenerante e guaritrice – veniva utilizzata sia per scopi cerimoniali che terapeutici.

Il getto che cade nel lavatoio 

Oggi, mentre l'acqua continua il suo eterno ciclo attraverso le rocce calcaree della Calvana, emergendo copiosa dalla sorgente del Borro di Cavagliano, possiamo solo immaginare i rituali e le credenze che per millenni hanno accompagnato questo fenomeno naturale. Ma le antiche murature del podere Castelluccio rimangono, a testimoniare quella sacralità del luogo che i millenni non hanno completamente cancellato.

Oggi la sorgente è molto più di un fenomeno idrogeologico: è un crocevia di storie e conoscenze dove geologia, archeologia, storia e mito si incontrano e si mescolano, dando forma a un racconto affascinante che attraversa i millenni e ci parla ancora, toccando le nostre radici più profonde.

Per chi voglia visitare questo luogo di seguito posto una cartina (cliccate per aprirla in modo interattivo); nel caso raccomando di fare attenzione perché la sorgente si trova dentro campi coltivati che non vanno calpestati né percorsi con mezzi diversi dalle gambe. Le coordinate GPS della sorgente sono 43.8881086N, 11.1538936E.

La conca di Travalle

domenica 9 marzo 2025

"Ostium non Hostium", La Scola dei Parisi

L'ingresso del borgo 

Giungere al borgo di La Scola è come arrivare in un angolo intatto del Medioevo. Situato nell'Appennino Bolognese, tra la Rocchetta Mattei e il Santuario di Montovolo, questo villaggio rappresenta uno degli esempi meglio conservati dell'architettura medievale appenninica. Le sue origini risalgono al VI secolo d.C., quando la sua posizione strategica sul crinale segnava il confine tra il regno longobardo e l'Esarcato di Ravenna. Il nome "Scola" deriva infatti dal termine longobardo "Sculca", che significa posto di guardia o vedetta, riflettendo la funzione militare originaria del borgo come avamposto difensivo del vicino centro monastico di Montovolo.

La meridiana di Palazzo Parisi 

La maggior parte degli edifici presenti risale al periodo tra il 1400 e il 1500, frutto dell'opera dei Maestri Comacini, artigiani provenienti da Milano e Como, noti per la loro maestria nella lavorazione della pietra. Questi artigiani trasformarono le antiche torri militari in abitazioni civili, mantenendo però l'aspetto fortificato del borgo. La struttura urbanistica di La Scola è infatti caratterizzata da edifici e torri addossate, integrate in un sistema difensivo naturale che sfrutta la conformazione del terreno per renderlo meno vulnerabile agli attacchi nemici. Un elemento distintivo del borgo è un maestoso cipresso, alto 25 metri e con un'età stimata di oltre 700 anni, riconosciuto come monumento naturale, con un fusto che raggiunge più di 5 metri di circonferenza.

L'antico forno comunitario

La storia del borgo è strettamente legata alla famiglia Parisi, originaria di Prato, che si stabilì a La Scola alla fine del XIV secolo; all'inizio svolgevano la professione di basiglieri (commercianti di lana grezza). Il primo membro noto, Parisio, è menzionato negli estimi del 1385 come proprietario di una casa nel borgo. Nel tempo, la famiglia si espanse e acquisì prestigio, tanto che nel 1451 i suoi discendenti possedevano tre abitazioni a La Scola. La famiglia Parisi si suddivise in tre rami: Parisi, Pelagalli e Bruni, che insieme mantennero la proprietà dell'intero borgo fino all'Ottocento. I Parisi, in particolare, divennero una delle casate più influenti della valle del Limentra, distinguendosi in vari ambiti professionali come notai, prelati, dottori in legge e capitani, garantendosi una posizione economica e sociale di rilievo nella zona.

Entrando nel borgo 

Il Palazzo Parisi, completato nel 1638, rappresenta l'edificio principale e il nucleo centrale del borgo. Sull'architrave dell'ingresso è incisa la frase latina "Ostium non hostium", che significa "Aperti agli amici, chiusi ai nemici", un gioco di parole basato sui termini latini "Ostium" (porta) e "Hostium" (genitivo di "nemici"). Il palazzo presenta collegamenti aerei verso gli edifici vicini, oltre a feritoie, balestriere, logge architravate, porticati, finestre decorate e fregi dipinti. All'interno, un ampio salone ospita un camino in pietra datato 1575, un grande tavolo seicentesco dalle gambe a forma di stivale di fante su cui i notai Parisi rogavano i loro atti, e un fregio affrescato raffigurante le fatiche d'Ercole. La famiglia Parisi mantenne la sua presenza a La Scola fino alla metà del XX secolo, quando si estinse con Irene Parisi. 

Decorazione in legno sulla facciata di una casa
Oltre al Palazzo Parisi, la famiglia contribuì alla costruzione di edifici religiosi nel borgo, tra cui l'Oratorio di San Pietro, edificato nel 1616, che conserva una pala d'altare raffigurante la Madonna della Cintola, recentemente restaurata. È curioso come proprio in questo piccolo oratorio si trovi un'immagine mariana così strettamente legata alla città di Prato, dove la Madonna della Cintola è al centro della devozione popolare e oggetto di una delle più importanti reliquie conservate nella cattedrale della città. Questo legame iconografico è certamente dovuto alla presenza della famiglia Parisi, che, pur avendo messo radici a La Scola, conservava forti legami con la città d'origine, testimoniati anche da tracce artistiche e culturali come questa. Anche in occasione del restauro, promosso nel 2018, all'inaugurazione del quadro rinnovato vennero da Prato diversi membri della confraternita del Sacro Cingolo.

Oratorio di San Pietro

Passeggiando per le strette vie acciottolate di La Scola, si possono ammirare diversi edifici storici; un'altra peculiarità è rappresentata dai "corridoi pensili", passaggi sopraelevati che collegano tra loro vari edifici, permettendo movimenti sicuri all'interno del borgo in caso di assedio. Grazie all'impegno dell'Associazione Culturale Sculca, fondata nel 1993, il borgo è stato preservato nella sua integrità e valorizzato attraverso eventi culturali e restauri mirati. Questo, apparentemente, ha permesso a La Scola di mantenere intatto il suo fascino antico in un luogo dove storia e natura sembrano fondersi armoniosamente.

Il cipresso secolare

Eppure, ciò che oggi percepiamo come autentico e immutabile è il frutto di un processo selettivo, talvolta inconsapevole, altre volte intenzionale. La memoria dei luoghi, come quella delle tradizioni, è stata tramandata attraverso scelte arbitrarie: ciò che oggi ammiriamo è solo una parte di un passato più vasto, di cui molte tracce sono andate perdute. Gli edifici rimasti, i dettagli architettonici preservati, perfino le storie che ci vengono raccontate, sono frutto di un'eredità che ha subito incessantemente trasformazioni, cancellazioni e riscritture nel corso del tempo. Ogni pietra, ogni struttura, ogni documento è parte di una storia più grande, ma non per questo completa. Il borgo che oggi visitiamo è una finestra su un passato che, per quanto affascinante e suggestivo, è solo un frammento della sua vera essenza.

Entrando dal basso nel nucleo abitato

Pertanto, quando ci immergiamo nella contemplazione di un luogo come questo, dovremmo farlo con la consapevolezza che stiamo osservando non solo ciò che è sopravvissuto, ma anche le ombre di ciò che è scomparso. Ogni spazio racconta storie multiple: quelle che possiamo ancora leggere e quelle ormai silenziate dal tempo. La bellezza di questi luoghi risiede infatti proprio nella loro incompletezza, nel mistero di ciò che è andato perduto, nelle domande che suscitano più che nelle risposte che offrono.

Legnaia e cantine

Viaggiare attraverso questi frammenti di memoria collettiva significa accettare l'imperfezione della nostra comprensione storica e, paradossalmente, arricchirla attraverso questa stessa consapevolezza. Significa rispettare non solo l'autenticità di ciò che vediamo, ma anche l'invisibile autenticità di ciò che non c'è più. In questo modo, il nostro rapporto con il passato diventa un dialogo continuo, un'interpretazione sempre aperta e mai definitiva, un esercizio di immaginazione oltre che di osservazione.

Il borgo dai prati sottostanti

Ed è forse proprio questa tensione tra presenza e assenza, tra conservazione e perdita, a conferire ai luoghi storici il loro fascino più profondo: essi ci invitano a riconoscere che ogni patrimonio è, per sua natura, incompleto e frammentario, e che la vera ricchezza sta nell'accettare questa incompletezza come parte essenziale della nostra eredità culturale.

mercoledì 5 marzo 2025

Castiglioncello tra memoria e oblio

Il borgo di Castiglioncello, oggi 

C'è qualcosa di profondamente evocativo nei luoghi abbandonati. Visitando Castiglioncello, frazione dimenticata di Firenzuola, si viene avvolti da una sensazione ambivalente, allo stesso tempo familiare e aliena. È come trovarsi in uno di quei sogni in cui sei inseguito da una presenza angosciosa che ti costringe in un angolo fino a rivelarsi, per poi scoprire che questa presenza è in realtà una parte di te che avevi dimenticato.

Una delle poche abitazioni rimaste in piedi 

Questo grappolo di case abbarbicate su un crinale appenninico, al centro della Valle del Santerno, è circondato da montagne scoscese. Non sono particolarmente alte, ma suscitano un senso di intensa solitudine che ti porta inevitabilmente a chiederti come potessero vivere le persone quassù. Eppure, paradossalmente, questa estraneità si trasforma in un inspiegabile déjà-vu: luoghi che dentro di noi conosciamo perfettamente, perché hanno lasciato una traccia - in noi, nei nostri genitori, nel nostro territorio - qualcosa di familiare e alieno al tempo stesso.

Arroccato su uno sperone di roccia a strapiombo sul fiume Santerno, il borgo rappresenta uno dei luoghi più affascinanti del comune di Firenzuola. Un paese abbandonato, costruito con pietre e malta, che non smette mai di stupire e che, soprattutto, non cessa di ospitare visite e leggende. La storia di Castiglioncello è l'epilogo di un passato difficile e costellato di sciagure, un conto severo che si è concluso con spopolamento, morte e distruzione. Fu un paese di dogana, punto nevralgico di confine tra il Gran Ducato di Toscana e quello di Bologna, conteso da entrambi proprio per la sua strategica collocazione. Sul crinale della montagna sopra al Santerno passava la vecchia via Montanara, che prima dell'Ottocento rappresentava l'unica strada a collegare Toscana ed Emilia Romagna e, di conseguenza, l'unica via di collegamento tra Nord e Sud.

Fiume Santerno e cascata di Moraduccio 

Le origini di Castiglioncello risalgono a tempi remoti. Dai documenti datati XII secolo, il borgo non compare come luogo autonomo, bensì assoggettato ad un "pace" (un'antica unità territoriale) ormai scomparso, denominato S. Ambrogio della Massa. Successivamente divenne un possedimento della famiglia Alidosi. Fu proprio questa famiglia che, cercando protezione dalla città di Firenze, fece in modo che Castiglioncello divenisse "toscano".

Le prime notizie di un Castiglioncello indipendente risalgono al 1450 circa, quando il comune di Castel del Rio tentò l'annessione a Firenze. Il borgo si trovava in una posizione di confine estremamente importante dal punto di vista militare e strategico, oltre che commerciale. Questa posizione conferì all'abitato una certa rilevanza fino al XVIII secolo, quando la costruzione di una serie di strade e ponti causò l'abbandono dell'antica via di collegamento passante per Castiglioncello, strada che in realtà era una mulattiera ed era definita molto scomoda e poco praticabile sin dal XVII secolo.

Il borgo sorgeva strategicamente lungo l'antica via che, seguendo la sponda sinistra del Santerno, collegava la zona con Imola attraverso San Piero, Le Piagnole e Sant'Apollinare. La sua storia è intrecciata con quella di importanti casate: fu infatti possedimento della diocesi di Imola, degli Alidosi e degli Ubaldini, prima di passare sotto il dominio di Firenze nel 1372.

Il borgo di Moraduccio e la statale dalla chiesa

La vita delle popolazioni di queste zone montane era estremamente dura, segnata da povertà, isolamento e frequenti calamità naturali. Castiglioncello non fece eccezione, subendo nel corso della sua storia numerosi eventi traumatici. Negli anni Venti dell'Ottocento, dopo il congresso di Lubiana, alcune truppe dell'impero austro-ungarico dirette a Napoli per placare i moti rivoluzionari dei Carbonari si stanziarono per settimane nel borgo di Castiglioncello. Gli imperiali presidiarono e saccheggiarono l'abitato, occupando persino la chiesa locale e aggravando le già difficili condizioni di vita dei residenti.

Ma le sciagure non si limitavano alle vicende umane. Il 24 settembre del 1784, un violento temporale si abbatté su tutta la valle del Santerno. Erano circa le 16, poco dopo la conclusione della messa domenicale. Il cielo era talmente cupo che sembrava notte fonda. Un fulmine cadde sul campanile, fracassandolo completamente. La saetta penetrò in chiesa fino a raggiungere la sacrestia, attraversando due muri e bucando perfino l'armadio dei fiori. Infine, il fulmine colpì mortalmente la perpetua, che in quel momento stava portando dei vasi sull'altare.

Stefano Casini, nel suo "Dizionario di Firenzuola", riporta un vivido racconto dell'evento tratto da un documento dell'archivio parrocchiale, oggi probabilmente perduto: 

"Il 26 settembre alle ore 16 circa... venne un'oscurità di tempo che pareva notte e indi cadè un fulmine sopra il campanile che lo fracassò del tutto ed entrando in chiesa penetrando il muro... forò due buchi sull'altare, andando nell'armadio dei fiori, indi penetrò la muraglia sovra l'uscio dell'altare venendo a colpire la serva di anni 68 circa la quale andava a portar vasi sopra la mia camera piovendo nella medesima e colpita fu sull'ultimo gradino della scala, venne giù per la muraglia della cucina, vedendola co' miei propri occhi, restando tutto sbalordito, essendo a tavola e solo in casa...".

Dopo un tentativo iniziale di restauro, l'edificio fu abbandonato e la chiesa venne ricostruita all'interno del borgo, sostituendo quella che era l'antica cappella del castello. Questa è la chiesa che ancora oggi si può vedere, seppur in condizioni di grave deterioramento.

L'interno della chiesa ormai crollata 
Le calamità naturali avevano da sempre segnato la storia del piccolo abitato. Particolarmente devastante fu l'alluvione del 1777, quando una disastrosa piena del fiume Santerno si abbatté sulla zona con furia implacabile. La violenza delle acque provocò la rottura degli argini dei canali, spazzando via tutti i mulini dell'area. Il Mulino di Ferro, simbolo dell'operosità locale, venne completamente travolto dalla corrente impetuosa, scomparendo per sempre tra i flutti tumultuosi. La catastrofe fu amplificata quando, durante lo stesso evento, un modesto rio sfondò il poggio che sorgeva sotto l'abitato di Moraduccio. Questa breccia creò un nuovo corso d'acqua che, confluendo nel Santerno, ne alimentò ulteriormente la già devastante portata. La potenza distruttiva del fiume raggiunse così livelli senza precedenti, abbattendo ogni ponte che attraversava il suo percorso e isolando completamente le comunità che per secoli avevano vissuto sulle sue sponde.

Degli arredi della chiesa ottocentesca non abbiamo notizie, presumibilmente erano modesti data la povertà della zona. L'unico elemento di cui ci resta memoria è una campana che recava l'iscrizione: "UGULINUS TOSCOLI ME FECIT A. D. MCCCXXVII" (1327), successivamente trasferita negli anni '70 sul campanile della pieve di Cornacchiaia.

Il censimento del 1841 registrava a Castiglioncello 97 abitanti, distribuiti in 20 famiglie che occupavano 19 abitazioni. Queste persone conducevano una vita di stenti e sacrifici, tipica delle popolazioni montane dell'epoca, costrette a sopravvivere in un ambiente ostile e isolato. La popolazione era composta principalmente da coloni o piccoli proprietari terrieri che coltivavano con fatica appezzamenti di terra strappati alla montagna, in un territorio impervio e poco fertile. Le famiglie vivevano di un'agricoltura di sussistenza, integrando la loro alimentazione con quello che la natura circostante poteva offrire attraverso la caccia e la raccolta.

Una finestra in una delle case

L'unica eccezione a questa economia di pura sopravvivenza era rappresentata da Lorenzo Lelli, che esercitava il mestiere di fabbro. L'analfabetismo era diffuso: in tutto il borgo, solo Dionisio Marrani sapeva leggere e scrivere, testimonianza di una vita incentrata sui bisogni primari e lontana da qualsiasi forma di istruzione o sviluppo culturale. L'11 luglio 1861, la chiesa di Castiglioncello ricevette la visita pastorale dell'arcivescovo di Firenze Giovacchino Limberti. Il canonico Palagi ci ha lasciato questo suggestivo resoconto:

"Dopo pranzo per un magnifico stradale che costeggia le vette dei monti, e rasentando i più profondi dirupi, ci recammo a Castiglioncello, che ci annunziaron vicino i fragorosi colpi di gioia. Faticose furono l'Esequie del Campo Santo posto in un'alta e inaccessibile roccia, ma un vero spettacolo. La sera attraversate a cavallo le acque del Santerno venimmo a Ca' Maggiore, rallegrati da molti fuochi di gioia, che sebben lontani ci rischiaravano il cammino".

Nei dintorni del borgo sorgevano due oratori. Il primo, dedicato alla Madonna del Poggio, fu edificato da certo Paolo Masini in seguito al ritrovamento di un'immagine mariana durante dei lavori agricoli. Una iscrizione su pietra, oggi perduta, commemorava l'evento: "

Deo in Cristi parentis honorem Virginis a Podio nuncupatae valetudinis ergo a fundamentis erigendo inque ipsam ex abiecta et humili aedicula insignis patronae iconem evehendo ut decentium collocaretur festa ipsius certa die quotannis adsignata r. p. Paulus Masinius pia vota exsolvit perpetuum grati animi monumentum a. aerae v. MDCCXCVI"

Il secondo oratorio, di proprietà della famiglia Giannoni, era dedicato alla Crocifissione.

Data la sua posizione di confine con lo Stato Pontificio, Castiglioncello ospitò una dogana di terza classe, dipendente da quella di Piancaldoli. Con l'apertura della nuova strada per Imola, la dogana fu trasferita a Moraduccio e l'edificio venduto a privati. Il borgo fu definitivamente abbandonato nel 1962, anche a causa delle difficoltà di collegamento con la strada principale. Negli anni precedenti fu avviata la costruzione di un ponte sul Santerno, opera che però non venne mai completata.

La scala d'ingresso in una casa

Nel 1969, quando il paese era ancora in discrete condizioni, vi fu girato "Flashback", un film del regista Raffaele Andreassi. La pellicola racconta la storia di un soldato tedesco che, addormentatosi su un albero e abbandonato dal suo reparto, decide di rimanere in quel luogo, tra la natura e gli abitanti del paese, ripercorrendo i momenti significativi della sua vita.

Oggi Castiglioncello giace in rovina. Le strutture, esposte per decenni alle intemperie e all'incuria, mostrano i segni evidenti del degrado: muri crollati, tetti sfondati, vegetazione che si insinua tra le pietre. Nonostante alcuni limitati tentativi di ricostruzione, il borgo rimane in gran parte un testimone silenzioso del passaggio del tempo. Gli sforzi di preservazione, seppur lodevoli, non sono stati finora sufficienti a fermare l'inesorabile declino di questo insediamento storico.

Visitare Castiglioncello oggi significa confrontarsi con le tracce tangibili dell'abbandono, ma anche intraprendere un viaggio interiore tra le pieghe della memoria collettiva. Le rovine, nella loro fragile bellezza, ci ricordano la precarietà delle opere umane e, al contempo, la loro capacità di evocare storie e vite che, sebbene apparentemente lontane, continuano a risuonare in noi con sorprendente familiarità.

venerdì 17 gennaio 2025

Il deserto del Monteferrato

Matsucoccus Feytaudi 
Il Matsucoccus Feytaudi, noto come Cocciniglia del Pino, è un insetto originario delle regioni atlantiche europee, dove convive in naturale equilibrio con i pini marittimi di cui si nutre. La sua storia in Italia inizia negli anni Settanta, quando attraverso il commercio del legname raggiunge prima la Francia meridionale e poi, nel 1977, si diffonde in Liguria e Toscana. Nei primi anni '80, l'insetto colonizza il Monteferrato pratese, trovando condizioni ideali per una proliferazione incontrollata: il clima più caldo e l'assenza di predatori naturali ne favoriscono una diffusione devastante per i pini marittimi della zona.

La pineta devastata dalla cocciniglia 
Il ciclo vitale del Matsucoccus si compie in un anno. Da marzo a maggio, ogni femmina adulta depone circa 300 uova nelle fessure delle cortecce, proteggendole con un caratteristico ovisacco ceroso bianco. Tra metà aprile e inizio giugno, si schiudono le neanidi: minuscole larve giallastre ovali, lunghe appena 0.3-0.4 millimetri. È questo lo stadio più critico per la diffusione dell'insetto: le neanidi, estremamente mobili, vengono trasportate dal vento colonizzando rapidamente nuove piante ospiti, nelle cui cortecce si insediano per nutrirsi della linfa.

La pericolosità di questo parassita risiede proprio nella sua capacità di creare una massiccia biomassa infestante. Sul Monteferrato, in assenza di antagonisti naturali, questa invasione si è trasformata in una vera emergenza ambientale, portando allo sterminio delle popolazioni locali di pino marittimo.

Il Chiesino, la vetta del Monteferrato, 420 mt 

I pini marittimi del Monteferrato furono piantati da diversi proprietari tra il 1850 e il 1890 con ottimi risultati, tant'è che le pinete hanno lentamente ricoperto nel Novecento le tre familiari "gobbe" ofiolitiche fino a far credere a noi cittadini di essere flora autoctona.

La pineta poco sotto la cima del Monte Chiesino (420 mt.)
Non si trattava di un intervento che aveva finalità estetiche. L'idea ottocentesca - adottata anche da agronomi di vaglia come il pievano di Montemurlo Raffaello Scarpettini - era quella di "mettere a coltura" tutte le terre disponibili, e quindi anche quelle del Monteferrato, per creare una piantagione di pini marittimi da cui ricavare una materia prima naturale che al tempo non aveva concorrenti sintetici: la resina, da cui si si estraevano per distillazione trementina e colofonia. Anche se il terreno accidentato e poco fertile non consentì il ritorno economico sperato, i pini restarono a ingentilire le pendici dei tre poggi.

Nella sua Guida della Val di Bisenzio del 1892 così descrive il Monteferrato il fondatore del CAI di Prato, Emilio Bertini:
"Oggi tutta la pendice del monte, che dalla vetta detta il Chiesino scende sino alle Prataccia da levante e fino alla Villa Geppi da ponente, è coperta di pini: quarant’anni fa tutto era deserto e nudo. Il primo a tentare d’imboschire il monte fu il benemerito e dotto agronomo Scarpettini, Pievano a Montemurlo, che seminò la pineta dalla parte occidentale e ne ebbe subito i frutti. Poi Gaetano Benini di Prato che dopo aver piantato olivi e gelsi, da oriente, ai piè del monte, ne volle seminar di pini domestici (pinus pinea) la pendice sin quasi alla cima."

Negli anni '70 del Novecento, però, l'arrivo del Matsucoccus sconvolse un equilibrio che sembrava oramai stabilito, creando in breve vaste zone di territorio in cui i pini morivano, ridotti a scheletri, e le pietraie sottostanti riemergevano.

Uno dei tanti tronchi scheletrici 
D'altro canto il Repetti nel suo Dizionario Geografico Fisico e Storico della Toscana del 1830 descriveva così il Monteferrato:

"Coteste pietre diasprine, che costituiscono la cornice del Monte Ferrato, precedono immediatamente quelle di serpentina diallagica e di granitone, due qualità di rocce massicce, le quali trovandosi nude di terra vegetativa, e spogliate quasi totalmente di piante, sogliono dare al monte un aspetto nerastro tendente al verde-bottiglia, specchiettato da frequenti cristalli di diallagio color di bronzo."

Ai primi dell'Ottocento e molto probabilmente anche nelle epoche precedenti, la vegetazione del Monteferrato doveva infatti essere scarsa e di basso fusto, formata prevalentemente da piante erbacee e arbustive come la stipa, la ginestra, l'aliso e l'euforbia.

La pineta morente  

Attualmente, seppure non del tutto visto che parte dei pini sembrano sufficientemente resistenti da convivere con il parassita, l'aspetto del Monteferrato si va rinaturalizzando e ritorna ad essere quello di un tempo: un affascinante "deserto" lunare di rocce magmatiche colonizzate da piante pioniere, un frammento di mantello terrestre che milioni di anni fa è stato il fondale del grande Oceano Tetide.

La storia del Monteferrato ci insegna quanto sia effimero il nostro tentativo di plasmare l'ambiente secondo i nostri bisogni. Un minuscolo insetto, la Cocciniglia del Pino, ha vanificato in pochi decenni un progetto di trasformazione ambientale che sembrava riuscito, riportando il monte al suo aspetto primordiale. È un monito che ci ricorda come la natura segua percorsi propri, molto più antichi e complessi dei nostri progetti: possiamo guidarla temporaneamente, ma non dominarla. In fondo, forse, la vera saggezza sta nel comprendere e assecondare questi equilibri millenari, piuttosto che tentare di piegarli alla nostra volontà.


martedì 14 gennaio 2025

I silenzi di Brento Sànico

Il paese oggi, con la chiesa di San Biagio 

Brento Sànico è un borgo medievale abbandonato situato nel comune di Firenzuola, nell'Appennino tosco-romagnolo. Il nome Brento è di origine germanica e si riferisce al fatto che il paese è "ben protetto dalle intemperie del vento", mentre l'attributo Sànico indica quasi certamente la salubrità del luogo. Le sue origini risalgono al 1145, quando era un importante possedimento degli Ubaldini di Susinana, che vi tenevano un vicariato per la riscossione delle tasse e lo utilizzavano come centro amministrativo dei loro distretti.

Il paese, molto isolato, si trova a un'altitudine di circa 628 metri e sovrasta la Valle del Santerno. Era situato sull'unica strada che collegava la Romagna con la Toscana, il che gli conferiva un'importanza strategica notevole. Nonostante ciò, Brento Sànico rimase un borgo tipicamente rurale, con un'economia basata su pastorizia, allevamento, raccolta delle castagne e coltivazione di grano, granturco e ortaggi.

Croce di Sassi 

Ancora negli anni '30 del XX secolo, il borgo era noto per le sue feste, che attiravano molti giovani dai paesi vicini. Durante gli anni '40, la zona ospitava anche un'istituzione scolastica. Il comune di Firenzuola aveva infatti autorizzato l'utilizzo di una stanza in un'abitazione privata come aula, dopo averla fatta certificare da un esperto. Questa soluzione permetteva ai bambini di Brento e dei poderi vicini di studiare senza dover affrontare il lungo tragitto fino a valle. Tuttavia, con l'industrializzazione e la costruzione di moderne strade e autostrade nel periodo post-bellico, Brento Sànico perse la sua importanza strategica e fu progressivamente abbandonato. L'ultima famiglia lasciò il paese nel 1951, trasferendosi nella frazione di San Pellegrino.

Negli anni successivi, il borgo cadde in rovina: le case in pietra locale vennero invase dalla vegetazione, i tetti crollarono, i campi furono occupati dal bosco, e i muretti a secco dei terrazzamenti franarono. Rimase in piedi solo la chiesa di San Biagio, con il suo campanile a vela e le vivaci decorazioni interne ottocentesche, in particolare la cupola di un acceso colore azzurro e le pareti con tracce di pitture del XVI secolo, progressivamente sbiadite.

L'interno della chiesa di San Biagio 

Solo dopo il Duemila sono stati avviati progetti di recupero del borgo. Nel 2016, l'escursionista e scrittrice Anna Boschi, insieme al "prete muratore" don Antonio Samorì, già protagonista del recupero dell'eremo di Gamogna e delle chiese di Lozzole e Trebbana, ha visitato Brento Sànico e lanciato un'iniziativa per salvare prima la chiesa di San Biagio e poi l'intero paese. Con l'aiuto di volontari, sono stati effettuati interventi di pulizia e restauro, con l'obiettivo di ristrutturare le abitazioni e darle in comodato d'uso gratuito a chi desidera una vita più vicina alla natura e ai ritmi lenti di una volta.

L'abside romanica della chiesa 

Oggi Brento Sànico si erge come testimone silenzioso di un'epoca passata, dove il tempo sembra essersi fermato tra i suoi muri di pietra e i sentieri invasi dalla vegetazione. Il silenzio che avvolge il borgo non è più quello dell'abbandono, ma quello contemplativo di chi cerca un rifugio dalla frenesia della vita moderna. Le antiche pietre, testimoni di secoli di storia, attendono pazientemente di tornare ad accogliere nuovi abitanti, non più contadini o pastori, ma persone alla ricerca di un modo di vivere diverso.

Un mondo di boschi e silenzi 

In questo angolo appartato dell'Appennino, dove la natura ha ripreso i suoi spazi e il passato dialoga con il presente, Brento Sànico si prepara a scrivere un nuovo capitolo della sua storia millenaria. Il suo esempio potrebbe mostrarci come anche i luoghi dimenticati possano rinascere, non solo recuperando le proprie radici, ma anche indicando una via alternativa per il futuro che ci attende.