venerdì 17 gennaio 2025

Il deserto del Monteferrato

Matsucoccus Feytaudi 
Il Matsucoccus Feytaudi, noto come Cocciniglia del Pino, è un insetto originario delle regioni atlantiche europee, dove convive in naturale equilibrio con i pini marittimi di cui si nutre. La sua storia in Italia inizia negli anni Settanta, quando attraverso il commercio del legname raggiunge prima la Francia meridionale e poi, nel 1977, si diffonde in Liguria e Toscana. Nei primi anni '80, l'insetto colonizza il Monteferrato pratese, trovando condizioni ideali per una proliferazione incontrollata: il clima più caldo e l'assenza di predatori naturali ne favoriscono una diffusione devastante per i pini marittimi della zona.

La pineta devastata dalla cocciniglia 
Il ciclo vitale del Matsucoccus si compie in un anno. Da marzo a maggio, ogni femmina adulta depone circa 300 uova nelle fessure delle cortecce, proteggendole con un caratteristico ovisacco ceroso bianco. Tra metà aprile e inizio giugno, si schiudono le neanidi: minuscole larve giallastre ovali, lunghe appena 0.3-0.4 millimetri. È questo lo stadio più critico per la diffusione dell'insetto: le neanidi, estremamente mobili, vengono trasportate dal vento colonizzando rapidamente nuove piante ospiti, nelle cui cortecce si insediano per nutrirsi della linfa.

La pericolosità di questo parassita risiede proprio nella sua capacità di creare una massiccia biomassa infestante. Sul Monteferrato, in assenza di antagonisti naturali, questa invasione si è trasformata in una vera emergenza ambientale, portando allo sterminio delle popolazioni locali di pino marittimo.

Il Chiesino, la vetta del Monteferrato, 420 mt 

I pini marittimi del Monteferrato furono piantati da diversi proprietari tra il 1850 e il 1890 con ottimi risultati, tant'è che le pinete hanno lentamente ricoperto nel Novecento le tre familiari "gobbe" ofiolitiche fino a far credere a noi cittadini di essere flora autoctona.

La pineta poco sotto la cima del Monte Chiesino (420 mt.)
Non si trattava di un intervento che aveva finalità estetiche. L'idea ottocentesca - adottata anche da agronomi di vaglia come il pievano di Montemurlo Raffaello Scarpettini - era quella di "mettere a coltura" tutte le terre disponibili, e quindi anche quelle del Monteferrato, per creare una piantagione di pini marittimi da cui ricavare una materia prima naturale che al tempo non aveva concorrenti sintetici: la resina, da cui si si estraevano per distillazione trementina e colofonia. Anche se il terreno accidentato e poco fertile non consentì il ritorno economico sperato, i pini restarono a ingentilire le pendici dei tre poggi.

Nella sua Guida della Val di Bisenzio del 1892 così descrive il Monteferrato il fondatore del CAI di Prato, Emilio Bertini:
"Oggi tutta la pendice del monte, che dalla vetta detta il Chiesino scende sino alle Prataccia da levante e fino alla Villa Geppi da ponente, è coperta di pini: quarant’anni fa tutto era deserto e nudo. Il primo a tentare d’imboschire il monte fu il benemerito e dotto agronomo Scarpettini, Pievano a Montemurlo, che seminò la pineta dalla parte occidentale e ne ebbe subito i frutti. Poi Gaetano Benini di Prato che dopo aver piantato olivi e gelsi, da oriente, ai piè del monte, ne volle seminar di pini domestici (pinus pinea) la pendice sin quasi alla cima."

Negli anni '70 del Novecento, però, l'arrivo del Matsucoccus sconvolse un equilibrio che sembrava oramai stabilito, creando in breve vaste zone di territorio in cui i pini morivano, ridotti a scheletri, e le pietraie sottostanti riemergevano.

Uno dei tanti tronchi scheletrici 
D'altro canto il Repetti nel suo Dizionario Geografico Fisico e Storico della Toscana del 1830 descriveva così il Monteferrato:

"Coteste pietre diasprine, che costituiscono la cornice del Monte Ferrato, precedono immediatamente quelle di serpentina diallagica e di granitone, due qualità di rocce massicce, le quali trovandosi nude di terra vegetativa, e spogliate quasi totalmente di piante, sogliono dare al monte un aspetto nerastro tendente al verde-bottiglia, specchiettato da frequenti cristalli di diallagio color di bronzo."

Ai primi dell'Ottocento e molto probabilmente anche nelle epoche precedenti, la vegetazione del Monteferrato doveva infatti essere scarsa e di basso fusto, formata prevalentemente da piante erbacee e arbustive come la stipa, la ginestra, l'aliso e l'euforbia.

La pineta morente  

Attualmente, seppure non del tutto visto che parte dei pini sembrano sufficientemente resistenti da convivere con il parassita, l'aspetto del Monteferrato si va rinaturalizzando e ritorna ad essere quello di un tempo: un affascinante "deserto" lunare di rocce magmatiche colonizzate da piante pioniere, un frammento di mantello terrestre che milioni di anni fa è stato il fondale del grande Oceano Tetide.

La storia del Monteferrato ci insegna quanto sia effimero il nostro tentativo di plasmare l'ambiente secondo i nostri bisogni. Un minuscolo insetto, la Cocciniglia del Pino, ha vanificato in pochi decenni un progetto di trasformazione ambientale che sembrava riuscito, riportando il monte al suo aspetto primordiale. È un monito che ci ricorda come la natura segua percorsi propri, molto più antichi e complessi dei nostri progetti: possiamo guidarla temporaneamente, ma non dominarla. In fondo, forse, la vera saggezza sta nel comprendere e assecondare questi equilibri millenari, piuttosto che tentare di piegarli alla nostra volontà.


martedì 14 gennaio 2025

I silenzi di Brento Sànico

Il paese oggi, con la chiesa di San Biagio 

Brento Sànico è un borgo medievale abbandonato situato nel comune di Firenzuola, nell'Appennino tosco-romagnolo. Il nome Brento è di origine germanica e si riferisce al fatto che il paese è "ben protetto dalle intemperie del vento", mentre l'attributo Sànico indica quasi certamente la salubrità del luogo. Le sue origini risalgono al 1145, quando era un importante possedimento degli Ubaldini di Susinana, che vi tenevano un vicariato per la riscossione delle tasse e lo utilizzavano come centro amministrativo dei loro distretti.

Il paese, molto isolato, si trova a un'altitudine di circa 628 metri e sovrasta la Valle del Santerno. Era situato sull'unica strada che collegava la Romagna con la Toscana, il che gli conferiva un'importanza strategica notevole. Nonostante ciò, Brento Sànico rimase un borgo tipicamente rurale, con un'economia basata su pastorizia, allevamento, raccolta delle castagne e coltivazione di grano, granturco e ortaggi.

Croce di Sassi 

Ancora negli anni '30 del XX secolo, il borgo era noto per le sue feste, che attiravano molti giovani dai paesi vicini. Durante gli anni '40, la zona ospitava anche un'istituzione scolastica. Il comune di Firenzuola aveva infatti autorizzato l'utilizzo di una stanza in un'abitazione privata come aula, dopo averla fatta certificare da un esperto. Questa soluzione permetteva ai bambini di Brento e dei poderi vicini di studiare senza dover affrontare il lungo tragitto fino a valle. Tuttavia, con l'industrializzazione e la costruzione di moderne strade e autostrade nel periodo post-bellico, Brento Sànico perse la sua importanza strategica e fu progressivamente abbandonato. L'ultima famiglia lasciò il paese nel 1951, trasferendosi nella frazione di San Pellegrino.

Negli anni successivi, il borgo cadde in rovina: le case in pietra locale vennero invase dalla vegetazione, i tetti crollarono, i campi furono occupati dal bosco, e i muretti a secco dei terrazzamenti franarono. Rimase in piedi solo la chiesa di San Biagio, con il suo campanile a vela e le vivaci decorazioni interne ottocentesche, in particolare la cupola di un acceso colore azzurro e le pareti con tracce di pitture del XVI secolo, progressivamente sbiadite.

L'interno della chiesa di San Biagio 

Solo dopo il Duemila sono stati avviati progetti di recupero del borgo. Nel 2016, l'escursionista e scrittrice Anna Boschi, insieme al "prete muratore" don Antonio Samorì, già protagonista del recupero dell'eremo di Gamogna e delle chiese di Lozzole e Trebbana, ha visitato Brento Sànico e lanciato un'iniziativa per salvare prima la chiesa di San Biagio e poi l'intero paese. Con l'aiuto di volontari, sono stati effettuati interventi di pulizia e restauro, con l'obiettivo di ristrutturare le abitazioni e darle in comodato d'uso gratuito a chi desidera una vita più vicina alla natura e ai ritmi lenti di una volta.

L'abside romanica della chiesa 

Oggi Brento Sànico si erge come testimone silenzioso di un'epoca passata, dove il tempo sembra essersi fermato tra i suoi muri di pietra e i sentieri invasi dalla vegetazione. Il silenzio che avvolge il borgo non è più quello dell'abbandono, ma quello contemplativo di chi cerca un rifugio dalla frenesia della vita moderna. Le antiche pietre, testimoni di secoli di storia, attendono pazientemente di tornare ad accogliere nuovi abitanti, non più contadini o pastori, ma persone alla ricerca di un modo di vivere diverso.

Un mondo di boschi e silenzi 

In questo angolo appartato dell'Appennino, dove la natura ha ripreso i suoi spazi e il passato dialoga con il presente, Brento Sànico si prepara a scrivere un nuovo capitolo della sua storia millenaria. Il suo esempio potrebbe mostrarci come anche i luoghi dimenticati possano rinascere, non solo recuperando le proprie radici, ma anche indicando una via alternativa per il futuro che ci attende.