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lunedì 28 ottobre 2024

Raccontare Radici e Ali


L'idea di scrivere Radici ed Ali è nata quasi per caso, rovistando nelle tracce lasciate dal mio passato familiare. Durante alcune ricerche sui miei antenati, ho scoperto una coincidenza che ha acceso la scintilla della mia immaginazione: il mio bisnonno Vincenzo era nato esattamente cento anni prima di me, nello stesso mese. Questo dettaglio, già di per sé affascinante, mi ha spinto a indagare di più sulla sua vita.

Man mano che raccoglievo informazioni, però, mi sono accorto che c'era un vuoto nella sua storia. Non avevo molti documenti su di lui, a parte quelli relativi al servizio militare, che terminava nel giugno del 1882. Ciò che mi ha colpito particolarmente è che era stato congedato a 20 anni dal servizio militare e si era sposato relativamente tardi, intorno ai 35 anni, e di quel periodo della sua vita – dai 20 ai 35 anni - non vi erano informazioni precise. Questo "vuoto" ha aperto lo spazio alla mia fantasia. Ho iniziato a immaginare cosa potesse essere successo in quel lasso di tempo, fantasticando che potesse aver lasciato la sua vita di contadino pratese per cercare fortuna altrove.

La mia passione per la storia mi ha permesso di costruire un contesto denso e autentico: conoscevo bene il panorama politico dell’epoca e ho approfondito gli eventi cruciali del giugno-luglio 1882 in Egitto, per dare alla vicenda di Vincenzo ed Emily un fondamento storico solido e credibile. Infatti, la storia si svolge nell'arco di questi due mesi, a partire dalla fine del mese di maggio, in cui avviene il ritorno di Vincenzo dal servizio militare, fino al tramonto del 17 luglio 1882, giorno in cui Vincenzo ed Emily arrivano a Giza. L'idea che sta alla base della narrazione è quella di far partire Vincenzo per un viaggio che lo avrebbe portato lontano dalla sua vita ordinaria, immergendolo in un'avventura che gli consentisse il cambiamento profondo che stava cercando.

Vincenzo è, in un certo senso, una versione di me stesso in un'altra epoca: un giovane uomo alla ricerca di un senso più profondo e di una vita migliore. Fuggendo dalle ristrettezze della campagna toscana, porta con sé la fiducia nelle proprie capacità e la consapevolezza che l’esperienza e la conoscenza possono trasformarlo.

Emily, invece, è l'incarnazione delle donne che ho incontrato nella mia vita trasposta nel personaggio di una giovane proveniente dall'alta società inglese, cresciuta tra le mura della diplomazia e i rituali della classe elevata. La sua vita sembra scritta secondo le regole di un mondo privilegiato, ma Emily è disposta a sfidare il peso delle aspettative e delle convenzioni imposte dalla sua famiglia e dal suo tempo. Dotata di una curiosità vivace e di uno spirito ribelle, non accetta un destino preconfezionato. Il suo desiderio di libertà è autentico e viscerale; e anche se il suo cammino si rivela spesso incerto, affronta ogni passo con una determinazione che rivela sia la sua fragilità sia la sua forza.

I loro destini si incrociano in un periodo storico turbolento, che potremmo definire - come in un antico proverbio cinese - “interessante”. Questo incontro, però, diventa l’occasione per entrambi di cambiare, permettendo loro di spiccare il volo, senza mai dimenticare le radici da cui provengono.

Radici ed Ali è quindi la storia di due persone che, nel mezzo delle inquietudini e delle insicurezze di un mondo in tumultuoso cambiamento, riescono comunque a trovare un nuovo senso di sé stessi.

Per la prima volta nella mia vita mi sono trovato a scrivere così tanto, raccontando - spero efficacemente - una vicenda così lunga e intricata: per quanto scrivere sia sempre stata una mia passione, mi sono reso conto che in qualche modo non sono stato io a scrivere la storia; piuttosto è la storia che si è fatta strada attraverso di me, come un fiume sotterraneo che ha trovato la sua via verso la luce. È stata una sensazione quasi fisica, come se abbia intrapreso anch’io un viaggio, che ho percorso insieme ai miei personaggi, vedendo il mondo attraverso i loro occhi, soffrendo e gioendo con loro.

Questa realtà parallela si è sovrapposta alla mia vita quotidiana, sdoppiandola fino al punto che a volte mi sembra di aver vissuto in due universi: quello ordinario, con le sue certezze e abitudini, e quello che ho plasmato con l'immaginazione, un mondo che da evanescente si è fatto sempre più nitido, quasi solido nella mia mente.

Alla fine mi chiedo se questa storia sia davvero solo una fantasia, una costruzione astratta, o se non ci sia qualcosa di più profondo e radicato. Perché dentro questa narrazione, fatta di luoghi, di incontri e di scelte, riconosco frammenti di me stesso: un mosaico di esperienze vissute, ricordi rimasti sospesi e possibilità mai realizzate. 

È una storia che non solo racchiude ciò che sono, ma contiene anche una parte di ciò che avrei potuto essere in altri tempi e circostanze, davanti a scelte che non ho compiuto. In questo modo, scrivere diventa un esercizio di riflessione e scoperta, in cui il confine tra la mia realtà e quella dei miei personaggi si dissolve, e la mia stessa vita si specchia nella storia che racconto, dando nuova forma a entrambe.

lunedì 19 agosto 2024

Redipuglia, 5 luglio 1939

Redipuglia, lettera "F"

Premessa

Nel giugno del 2024, di ritorno da Trieste, mi sono fermato a Redipuglia, il sacrario militare più grande d'Italia, dove riposano circa 150.000 caduti italiani della Prima Guerra Mondiale. Questo monumento imponente e angosciante, nato con l’intento di glorificare il sacrificio di chi cadde "per la Patria", mi ha colpito invece come un simbolo tangibile dell’assurdità della guerra.

Mentre camminavo tra le gradinate, il pensiero è andato al mio bisnonno Vincenzo, nato esattamente cent’anni prima di me, nel giugno del 1862. Anche lui, durante la guerra, aveva due figli maschi: Diego e Quirino, entrambi coscritti, ma fortunatamente sopravvissuti al cataclisma che fu il primo conflitto mondiale.

Uno di loro — mio nonno Diego — era un "ragazzo del '99". Aveva meno di 18 anni quando, nel giugno del 1917, venne chiamato alle armi. Dopo l’addestramento alla caserma di Rovezzano, fu inviato a combattere, a dicembre dello stesso anno, nelle trincee del Monte Grappa.

Diego avrebbe potuto facilmente finire lì, il suo nome inciso in bronzo tra tanti altri, sulle lastre di calcare del sacrario: un ragazzo con le sue aspirazioni e i suoi sogni cancellati da una pallottola, una scheggia di bomba, una baionetta o un soffio di gas velenoso. E mentre stavo in piedi davanti allo spazio dove sarebbe stato inciso il suo — il mio — cognome, mi sono reso conto di quanto poco sapessi di lui e della guerra che aveva combattuto. Nessuno in famiglia ricordava nulla, anche perché mio nonno era morto solo un anno dopo la mia nascita, nel 1963.

Questa sorta di rimozione, questa totale assenza di memoria familiare, mi ha colpito. Persino mia madre, che aveva vissuto con i nonni per diversi anni dopo il matrimonio, mi ha confermato di non aver mai saputo che Diego avesse partecipato alla guerra del 1915-18. In casa, quel periodo non era mai stato oggetto di discussione.

Mosso dalla curiosità, ho deciso di ricostruire la storia di mio nonno, utilizzando gli archivi civili e militari oggi disponibili online. Con mia grande sorpresa, sono riuscito a raccogliere molte informazioni, al punto da volerle trasformare in un racconto, che ora condivido con voi. Tutti i fatti, le date, i luoghi e la maggior parte dei personaggi e delle ambientazioni sono reali. Spero che apprezzerete questo viaggio nella storia della mia famiglia.

sabato 20 aprile 2024

Sapore, sapere

Coltivazione del mais e preparazione di tortillas, Diego Rivera 1950

"Il vero viaggio, in quanto introiezione d’un «fuori» diverso dal nostro abituale, implica un cambiamento totale dell’alimentazione, un inghiottire il paese visitato, nella sua fauna e flora e nella sua cultura (non solo le diverse pratiche della cucina e del condimento ma l’uso dei diversi strumenti con cui si schiaccia la farina o si rimesta il paiolo), facendolo passare per le labbra e l’esofago. Questo è il solo modo di viaggiare che abbia un senso oggigiorno, quando tutto ciò che è visibile lo puoi vedere anche alla televisione senza muoverti dalla tua poltrona."

Nel giugno del 1982 avevo vent'anni, e mi ero abbonato dai primi di quell'anno alla rivista FMR di Franco Maria Ricci: rivista d'arte bellissima, dalla copertina nera lucida e dai caratteri bodoniani che al me di allora apparivano un po' retrò, con immagini curate e testi rigorosi, che proponevano argomenti insoliti e stimolavano molto la mia insaziabile curiosità. 

Uno degli articoli di quel mese riguardava una mostra che si teneva alla Biblioteca Laurenziana di Firenze incentrata sul Codice Fiorentino di fra Bernardino de Sahagùn, concepito dopo la Conquista spagnola e redatto nel convento di Santa Cruz di Tlatelolco con lo scopo di raccogliere - come in un'enciclopedia ante litteram - tutte le conoscenze, i riti, la vita quotidiana e la lingua delle popolazioni conquistate, in una sorta di commemorazione di quel Messico azteco che i conquistadores avrebbero voluto cancellare dalla memoria del mondo. Tuttavia il libro fu prontamente sequestrato al frate dalla Corte spagnola, che ne proibì la ristampa e la lettura, perché sebbene non criticasse mai apertamente l'amministrazione spagnola evidenziava il disordine sociale e lo sfruttamento che erano seguiti alla Conquista.

Il Codice, certamente salvato per il suo evidente valore artistico, sfuggì alla distruzione definitiva e giunse a Firenze nel 1579, dono di Filippo II di Spagna al Granduca Francesco I de' Medici, in occasione delle sue seconde nozze con Bianca Cappello; restò a lungo dimenticato sugli scaffali della Laurenziana fino alla sua riscoperta a metà Ottocento, epoca in cui la sua esistenza si rivelò al grande pubblico attraverso varie ristampe.

Nell'articolo di FMR, Pietro Corsi abbinava bellissime illustrazioni tratte dal Codice con un racconto inedito di Italo Calvino,  Sapore, sapere, che in seguito sarebbe stato rinominato Sotto il sole giaguaro. Il testo racconta la scoperta di sé e del rapporto con l'altro attraverso l'esperienza di una cucina completamente diversa da quella dei due protagonisti: il cibo, in questo racconto, assume infatti un valore fortemente simbolico. I sapori piccanti e intensi rappresentano la passione e la sensualità, mentre i piatti esotici e sconosciuti simboleggiano la scoperta di nuovi orizzonti e la voglia di avventura.

Prima di leggere questo racconto, non avevo mai considerato il cibo come un'esperienza culturale. Lo vedevo semplicemente come qualcosa da consumare. Non avrei mai immaginato che, qualche anno dopo, avrei avuto la possibilità di assaporare la cucina messicana nel suo paese d'origine. Un'esperienza che ha rivoluzionato il mio modo di percepire la cucina "straniera". Le riflessioni suscitate da questo racconto di Italo Calvino sono state il punto di partenza di un viaggio di approfondimento che dura tuttora. Ancora oggi, a più di quarant'anni di distanza, trovo che sia un'opera poetica e sensuale, capace di trasmettere emozioni attraverso le parole. Proprio per questo spero che lo leggerete con lo stesso gusto che ho provato io.

Codice Fiorentino, Libro I foglio 11r

 Sapore, Sapere

Gustare,  in genere, esercitare il senso del gusto, riceverne l’impressione, anco senza deliberato volere o senza riflessione poi. L’assaggio si fa più determinante a fin di gustare e di sapere quel che si gusta; o almeno denota che dell’impressione provata abbiamo un sentimento riflesso, un’idea, un principio d’esperienza. Quindi è che sapio,  ai Latini, valeva in traslato sentir rettamente; e quindi il senso dell’italiano sapere,  che da sé vale dottrina retta, e il prevalere della sapienza sopra la scienza." (Niccolò Tommaseo, Dizionario dei sinonimi)

Oaxaca si pronuncia Uahàca. L’albergo a cui eravamo scesi era stato, in origine, il convento di Santa Catalina. La prima cosa che avevamo notato era un quadro, in una saletta che portava al bar. Il bar si chiamava «Las Novicias». Il quadro era una grande tela oscura che rappresentava una giovane monaca e un vecchio prete, in piedi, affiancati, le mani leggermente staccate dal corpo, quasi sfiorandosi. Figure piuttosto rigide, per essere un quadro del Settecento: una pittura dalla grazia un po’ rozza propria dell’arte coloniale, ma che trasmetteva una sensazione conturbante, come uno spasimo di sofferenza contenuta. La parte inferiore del quadro era occupata da una lunga didascalia, in fitte righe d’una angolosa scrittura corsiva, bianco su nero. Vi si celebravano devotamente vita e morte dei due personaggi, che erano stati lui il cappellano e lei la badessa del convento (lei, di nobile famiglia, v’era entrata novizia a diciott’anni). La ragione per cui venivano ritratti insieme era lo straordinario amore (la parola nella pia prosa spagnola si presentava carica del suo anelito ultraterreno) che aveva legato per trent’anni la badessa e il suo confessore, un così grande amore (la parola nella sua accezione spirituale sublimava ma non cancellava l’emozione corporea) che quando il prete era venuto a morte, la badessa, di vent’anni più giovane, nello spazio di un giorno, s’era ammalata ed era spirata letteralmente d’amore (la parola bruciava d’una verità in cui tutti i significati convergono) per raggiungerlo in cielo. 

Olivia, che sapeva lo spagnolo meglio di me, m’aiutò a decifrare la storia suggerendomi la traduzione di qualche espressione oscura; e furono queste le sole parole che ci venne da scambiare durante e dopo la lettura, come ci trovassimo in presenza d’un dramma, o d’una felicità, che rendeva ogni commento fuori luogo; qualcosa che ci intimidiva, anzi, intimoriva, o meglio, ci comunicava una specie di malessere. Così cerco di descrivere quel che provavo io: il senso d’una mancanza, d’un vuoto divorante; cosa stesse pensando Olivia, dato che taceva, non posso indovinarlo. Poi Olivia parlò. Disse: «Vorrei mangiare chiles en nogada».  E a passi da sonnambuli, come non ben sicuri di toccar terra, ci dirigemmo verso il ristorante. Come accade nei momenti migliori della vita d’una coppia, avevo istantaneamente ricostruito il percorso dei pensieri d’Olivia, senza che ci fosse bisogno di dire di più: e questo perché la stessa catena d’associazioni s’era srotolata anche nella mia mente, se pure in modo più torpido e nebbioso, tale che senza di lei non avrei potuto acquistarne coscienza. 

Il nostro viaggio attraverso il Messico durava già da più d’una settimana. Pochi giorni prima, a Tepotzotlàn, in un ristorante che allineava i suoi tavoli tra gli alberi d’arancio d’un altro chiostro di convento, avevamo gustato vivande preparate (così almeno ci era stato detto) seguendo le antiche ricette delle monache. Avevamo mangiato un tamàl de elote,  cioè una sottile semola di mais dolce con carne di maiale tritata e piccantissimo peperoncino, il tutto cotto al vapore con una foglia anch’essa di mais; poi chiles en nogada,  che erano peperoncini rossobruni, un po’ rugosi, nuotanti in una salsa di noci la cui asprezza pungente e il fondo amaro si perdevano in un’arrendevolezza cremosa e dolcigna. Da quel momento l’idea delle monache evocava in noi i sapori di una cucina elaborata e audace, come tesa a far vibrare le note estreme dei sapori e ad accostarle in modulazioni, accordi e soprattutto dissonanze che s’imponessero come un’esperienza senza confronti, un punto di non ritorno, una possessione assoluta esercitata sulla ricettività di tutti i sensi. 

L’amico messicano che ci aveva accompagnato in quella gita, di nome Salustiano Velazco, nel rispondere a Olivia che s’informava su queste ricette della gastronomia monacale, abbassava la voce come confidandoci segreti indelicati. Era il suo modo di parlare, questo; o meglio, uno dei due suoi modi: le informazioni di cui Salustiano era prodigo (sulla storia e i costumi e la natura del suo paese era d’una erudizione inesauribile) venivano o enunciate con enfasi come proclami di guerra o insinuate con malizia come fossero cariche di chissà quali sottintesi. Olivia aveva osservato che piatti come questi presupponevano ore e ore di lavoro, e prim’ancora una lunga serie d’esperimenti e perfezionamenti. «Ma passavano le giornate in cucina, queste monache?» aveva chiesto, immaginandosi vite intere dedicate alla ricerca di nuove mescolanze d’ingredienti e variazioni nei dosaggi, all’attenta pazienza combinatoria, alla trasmissione d’un sapere minuzioso e puntuale. «Tenìan sus criadas,  avevano con sé le loro domestiche», aveva risposto Salustiano e ci aveva spiegato come le figlie di famiglie nobili entrassero in convento portando con sé le proprie donne di servizio; cosicché per soddisfare i veniali capricci della gola, i soli a esser loro concessi, le monache potevano contare su uno stuolo alacre e infaticabile d’esecutrici. 

E quanto a loro non avevano che da ideare e predisporre e confrontare e correggere ricette che esprimessero le loro fantasie costrette tra quelle mura: fantasie anche di donne raffinate, e accese, e introverse, e complicate, donne con bisogni d’assoluto, con letture che parlavano d’estasi e trasfigurazioni e martìri e supplizi, donne con contrastanti richiami nel sangue, genealogie in cui la discendenza dei Conquistadores si mescolava con quella delle principesse indie, o delle schiave, donne con ricordi infantili di frutti e aromi d’una vegetazione succulenta e densa di fermenti, benché cresciuta da quegli assolati altopiani. Né si poteva dimenticare l’architettura sacra che faceva da sfondo alle vite di quelle religiose, mossa dalla stessa spinta verso l’estremo che portava all’esasperazione dei sapori amplificata dalla vampa dei chiles più piccanti. Così come il barocco coloniale non poneva limite alla profusione degli ornamenti e allo sfarzo, per cui la presenza di Dio era identificata in un delirio minuziosamente calcolato di sensazioni eccessive e traboccanti, così il bruciore delle quarantadue varietà indigene di peperoncini sapientemente scelti per ogni vivanda apriva le prospettive d’un’estasi fiammeggiante. 

Avevamo, a Tepotzotlàn, visitato la chiesa che i Gesuiti avevano costruito per il loro seminario nel Settecento (e appena inaugurata avevano dovuto abbandonarla, cacciati per sempre dal Messico): una chiesa-teatro tutta in oro e colori vivi, in un barocco danzante e acrobatico, folta d’angeli volteggiami, ghirlande, trofei di fiori, conchiglie. Certo i Gesuiti s’erano proposti di gareggiare con lo splendore degli Aztechi, le rovine dei cui templi e palazzi - la reggia di Quetzacoatl! - erano sempre presenti a ricordare un dominio esercitato con gli effetti suggestivi d’un’arte trasfiguratrice e grandiosa. C’era una sfida nell’aria, in quest’aria secca e fine dei duemila metri: l’antica sfida tra le civiltà d’America e di Spagna nell’arte d’incantare i sensi con seduzioni allucinanti, e dall’architettura questa sfida s’estendeva alla cucina, dove le due civiltà s’erano fuse, o forse dove quella dei vinti aveva trionfato, forte dei condimenti nati dal suo suolo. Attraverso bianche mani di novizie e mani brune di converse, la cucina della nuova civiltà ispano-india s’era fatta anch’essa campo di battaglia tra la ferinità aggressiva degli antichi dèi dell’altopiano e la sovrabbondanza sinuosa della religione barocca… 

Nel menu della cena non trovammo chiles en nogada (da una località a un’altra il lessico gastronomico variava proponendo sempre nuovi termini da registrare e nuove sensazioni da distinguere), bensì guacamole (cioè una purée di avocado e cipolla da tirar su con le tortillas croccanti che si spezzano in tante schegge e s’intingono come cucchiai nella crema densa: la pingue morbidezza dell’aguacate - il frutto nazionale messicano diffuso per il mondo sotto il nome storpiato di avocado - accompagnata e sottolineata dall’asciuttezza angolosa della tortilla,  che può avere a sua volta tanti sapori facendo finta di non averne nessuno), poi guajolote con mole poblano (cioè tacchino con salsa di Puebla, tra i tanti moles uno dei più nobili - era servito alla tavola di Moctezuma -, più laboriosi - a prepararlo non ci si mette mai meno di tre giorni - e più complicati - perché richiede quattro varietà diverse di chiles,  aglio, cipolla, cannella, chiodi di garofano, pepe, semi di cumino, di coriandolo e di sesamo, mandorle, uva passa, arachidi e un po’ di cioccolato) e infine quesadillas (che sarebbero un altro tipo di tortilla,  in cui il formaggio è incorporato alla pasta e guarnito di carne tritata e di fagioli fritti). 

Le labbra d’Olivia nel bel mezzo della masticazione indugiavano fin quasi a fermarsi, ma senza interrompere del tutto la continuità del movimento, che rallentava come non volendo lasciar allontanare un’eco interiore, mentre il suo sguardo si fissava in un’attenzione senza oggetto apparente, quasi come in allarme. Era una speciale concentrazione del viso che avevo osservato in lei durante i pasti, da quando avevamo cominciato il nostro viaggio in Messico: una tensione che seguivo nel suo propagarsi dalle labbra alle narici, ora dilatate ora contratte. (Il naso ha una plasticità molto ridotta - soprattutto un naso armonioso e gentile come quello d’Olivia - e ogni impercettibile movimento inteso a espandere la capienza delle narici nel senso longitudinale le rende in effetti più sottili, mentre il corrispettivo movimento riflesso che ne accentua l’ampiezza risulta poi invece come un ritrarsi di tutto il naso verso la superficie del viso). Da quanto ho detto si potrebbe credere che Olivia mangiando si chiudesse in se stessa immedesimandosi nel percorso interiore delle sue sensazioni; in realtà invece il desiderio che tutta la sua persona esprimeva era quello di comunicarmi ciò che sentiva: di comunicare con me attraverso i sapori, o di comunicare coi sapori attraverso un doppio corredo di papille, il suo e il mio. 

«Senti? Hai sentito?» mi diceva con una specie d’ansia, come se in quel preciso momento i nostri incisivi avessero triturato un boccone di composizione identica e la stessa stilla d’aroma fosse stata captata dai recettori della mia lingua e della sua. «È lo xilantro Non senti lo xilantro?» aggiungeva, menzionando un’erba che dal nome locale non eravamo ancora riusciti a identificare con sicurezza (forse l’aneto?) e di cui bastava un filo sottile nel boccone che stavamo masticando per trasmettere alle narici una commozione dolcemente pungente, come un’impalpabile ebbrezza. Questo bisogno che Olivia aveva di coinvolgermi nelle sue emozioni m’era molto gradito, perché mi dimostrava quanto le fossi indispensabile e come per lei i piaceri dell’esistenza fossero apprezzabili solo se condivisi tra noi. È solo nell’unità della coppia - pensavo - che le nostre soggettività individuali trovano amplificazione e completezza. Di confermarmi in questa convinzione avevo tanto più bisogno in quanto dall’inizio del nostro viaggio messicano l’intesa fisica tra me e Olivia stava attraversando una fase di rarefazione se non d’eclisse: fenomeno certamente momentaneo e non preoccupante in sé, anzi tale da rientrare nei normali alti e bassi cui va soggetta, nei tempi lunghi, la vita d’ogni coppia. E non potevo fare a meno di notare che certe manifestazioni della carica vitale d’Olivia, certi suoi scatti o indugi o struggimenti o palpiti, continuassero a dispiegarsi sotto i miei occhi senz’aver perso nulla della loro intensità, con una sola variante di rilievo: l’aver per teatro non più il letto dei nostri abbracci ma una tavola apparecchiata. 

M’aspettavo, nei primi giorni, che la crescente accensione del palato non tardasse a comunicarsi a tutti i nostri sensi. Sbagliavo: afrodisiaca questa cucina lo era certamente, ma in sé e per sé (questo credetti di capire e ciò che dico vale per noi in quel momento; non so per altri, o per noi stessi se ci fossimo trovati in un altro stato d’animo), ossia stimolava desideri che cercavano soddisfazione solo nella stessa sfera di sensazioni che li aveva fatti nascere, dunque mangiando sempre nuovi piatti che rilanciassero e ampliassero quegli stessi desideri. Eravamo dunque nella situazione migliore per immaginare come poteva essersi svolto l’amore tra la badessa e il cappellano: un amore che poteva pur essere stato, agli occhi del mondo e di loro stessi, perfettamente casto, e nello stesso tempo d’una carnalità senza limiti in quell’esperienza dei sapori raggiunta per mezzo d’una complicità segreta e sottile. Complicità: la parola, appena la pensai, riferendola non solo alla monaca e al prete ma a Olivia e a me, mi rinfrancò. Perché se era complicità quella che Olivia cercava per la passione quasi ossessiva per il cibo che l’aveva presa, ebbene, allora questa complicità implicava che non si perdesse, come sempre più temevo, una parità tra noi. Infatti mi sembrava che negli ultimi giorni Olivia, nella sua esplorazione gustativa, volesse tenermi in una posizione subalterna, come d’una presenza necessaria sì ma sottomessa, obbligandomi a far da testimone al suo rapporto col cibo, o da confidente, o da compiacente mezzano. 

Scacciai questo pensiero importuno, che chissà come mi s’era affacciato alla mente: in realtà la nostra complicità non poteva essere più piena, proprio perché era diverso il modo in cui vivevamo la stessa passione in armonia coi nostri temperamenti: Olivia più sensibile alle sfumature percettive e dotata d’una memoria più analitica dove ogni ricordo restava distinto e inconfondibile; io più portato a definire verbalmente e concettualmente le esperienze, a tracciare la linea ideale del viaggio compiuto dentro di noi contemporaneamente al viaggio geografico. Questa era appunto una conclusione a cui ero giunto e che Olivia aveva prontamente fatto sua (o forse l’idea era stata Olivia a suggerirmela e io non avevo fatto che riproporgliela con parole mie): il vero viaggio, in quanto introiezione d’un «fuori» diverso dal nostro abituale, implica un cambiamento totale dell’alimentazione, un inghiottire il paese visitato, nella sua fauna e flora e nella sua cultura (non solo le diverse pratiche della cucina e del condimento ma l’uso dei diversi strumenti con cui si schiaccia la farina o si rimesta il paiolo), facendolo passare per le labbra e l’esofago. Questo è il solo modo di viaggiare che abbia un senso oggigiorno, quando tutto ciò che è visibile lo puoi vedere anche alla televisione senza muoverti dalla tua poltrona. (E non si obietti che lo stesso risultato si ha a frequentare i ristoranti esotici delle nostre metropoli: essi falsano talmente la realtà della cucina cui pretendono di richiamarsi che, dal punto di vista dell’esperienza conoscitiva che se ne può trarre, equivalgono non a un documentario ma a una ricostruzione ambientale filmata in uno studio cinematografico). 

Ciò non toglie che nel nostro viaggio Olivia e io vedessimo tutto quello che va visto (certo non poco, come quantità e qualità). Per l’indomani era fissata la visita agli scavi di Monte Albàn; la guida venne puntualmente a prenderci all’albergo con il pulmino. Nell’assolata arida campagna crescono le agavi per il mezcal e la tequila,  i nopales (da noi detti fichi d’India), i cereus tutti spine, gli jacaranda dai fiori azzurri. La strada sale tra le montagne. Monte Albàn, tra le alture che circondano una vallata, è un complesso di rovine di templi, bassorilievi, grandiose scalinate, piattaforme per i sacrifici umani. L’orrore, il sacro e il mistero vengono inglobati dal turismo, che ci detta comportamenti preordinati, modesti succedanei di quei riti. Contemplando questi gradini cerchiamo d’immaginarci il sangue caldo zampillante dai petti squarciati dalle lame di pietra dei sacerdoti… 

Tre civiltà si sono succedute a Monte Albàn spostando sempre le stesse pietre: gli Zapotechi distruggendo e rifacendo le opere olmeche e i Mixtechi le zapoteche. I calendari delle antiche civiltà messicane, scolpiti nei bassorilievi, rispondono a una concezione del tempo ciclica e tragica: ogni cinquantadue anni l’universo finiva, morivano gli dèi, i templi venivano distrutti, ogni cosa celeste o terrena cambiava nome. Forse i popoli che la storia distingue come occupanti successivi di questi territori non erano che un unico popolo, la cui continuità non si è mai spezzata, pur attraverso una storia di massacri quale i bassorilievi rappresentano. Ecco i villaggi conquistati, col nome scritto in geroglifici, e il dio del villaggio a testa in giù; ecco i prigionieri di guerra in catene, le teste staccate delle vittime… 

La guida a cui ci ha affidato l’agenzia turistica, un omaccione a nome Alonso, dai lineamenti appiattiti come le figure olmeche (o mixteche? o zapoteche?), ci illustra, con grande esuberanza mimica, i famosi bassorilievi detti «Los Danzantes». Delle figure scolpite solo alcune rappresenterebbero effettivamente danzatori con le gambe in movimento (Alonso esegue alcuni passi di danza); altri potrebbero essere astronomi che alzano una mano a visiera per scrutare le stelle (Alonso si mette in posa di astronomo); ma per la più parte rappresentano donne in atto di partorire (Alonso esegue). Comprendiamo che questo tempio era destinato a scongiurare i parti difficili; i bassorilievi erano forse immagini votive. Anche la danza, del resto, serviva a facilitare i parti per mimesi magica, specialmente quando il bambino si presentava di piedi. (Alonso mima la mimesi magica). Un bassorilievo rappresenta un taglio cesareo con tanto d’utero e di trombe di Falloppio. (Alonso, più brutale che mai, mima l’intera anatomia femminile, a provare che un identico strazio chirurgico accomunava le nascite e le morti). Tutto nella gesticolazione della nostra guida prendeva un senso truculento, come se i templi dei sacrifici proiettassero la loro ombra su ogni atto e ogni pensiero. Ogni figura dei bassorilievi appariva legata a quei riti sanguinosi: fissata la data più propizia contemplando le stelle, il sacrificio era accompagnato dal tripudio delle danze; e perfino le nascite sembravano non aver altro fine che di rifornire di nuovi soldati le guerre per la cattura delle vittime. Anche dove sono rappresentate figure che corrono o lottano o giocano a palla non si tratta di pacifiche gare d’atleti ma di prigionieri di guerra obbligati a gareggiare per decidere a chi di loro tocca per primo di salire sull’altare. «Chi perdeva nelle gare era destinato al sacrificio?» domando. «No, chi vinceva!» e il viso d’Alonso s’illumina. «Avere il petto squarciato dal coltello d’ossidiana era un onore!» e in un crescendo di patriottismo ancestrale, come ha vantato l’eccellenza del sapere scientifico degli antichi popoli, così ora il buon discendente degli Olmechi si sentiva in dovere di esaltare l’offerta al sole d’un cuore umano palpitante, perché l’aurora ritorni a illuminare il mondo ogni mattino. 

Fu allora che Olivia domandò: «Ma del corpo delle vittime, dopo, cosa ne facevano?» Alonso si fermò. «Sì, queste membra, queste viscere», insistette Olivia, «offerte agli dèi, va bene, ma praticamente, dove andavano a finire? Le bruciavano?» No, non venivano bruciati. «E allora? un dono agli dèi non poteva certo venir sotterrato, lasciato marcire…» «Los zopilotes»,  disse Alonso, «gli avvoltoi». Erano loro a sgomberare gli altari e a portare al cielo le offerte. Gli avvoltoi… «Sempre?» chiede ancora Olivia, con un’insistenza che non riesco a spiegarmi. Alonso scantona, cerca di cambiar discorso, ha fretta di mostrarci i camminamenti che collegavano le case dei sacerdoti ai templi, dove essi facevano la loro apparizione col volto ricoperto da maschere terrificanti. La foga pedagogica del cicerone aveva qualcosa d’irritante perché dava l’impressione che egli stesse impartendoci una lezione semplificata per farla entrare nelle nostre povere teste di profani, mentre lui ne sapeva certo di più, cose che teneva per sé e si guardava bene dal dirci. Forse era questo che Olivia aveva avvertito e che da un certo momento in poi la fece chiudersi in un silenzio contrariato, che durò per tutto il resto della visita agli scavi, e poi sulla jeep sobbalzante che ci riportava a Oaxaca. Cercavo, durante il percorso tutto curve, d’intercettare lo sguardo d’Olivia che sedeva di fronte a me; ma, fossero i sobbalzi della jeep o il dislivello dei nostri sedili, m’accorsi che il mio sguardo si fermava non sui suoi occhi ma sui suoi denti (teneva le labbra dischiuse in un’espressione assorta), denti che per la prima volta m’accadeva di vedere non come il lampo luminoso del sorriso ma come gli strumenti più adatti alla propria funzione: l’affondare nella carne, lo sbranare, il recidere. E come si cerca di leggere il pensiero d’una persona nell’espressione degli occhi, ecco ora io guardavo questi denti taglienti e forti e vi sentivo un desiderio trattenuto, un’attesa. 

Rientrando all’albergo e avviandoci verso la grande sala (l’ex cappella del convento) che dovevamo attraversare per raggiungere l’ala dov’era la nostra stanza, ci colpì un rumore come d’una cascata d’acqua che scroscia e rimbalza e gorgoglia attraverso mille rivoli e vortici e zampilli. Più ci avvicinavamo più questo omogeneo fragore s’andava frantumando in un insieme di cinguettii gorgheggi pigolii chioccolii come d’uno stormo d’uccelli che sbattesse le ali in una voliera. Dalla soglia (la sala era più bassa di alcuni gradini rispetto al corridoio) ci apparve una distesa di cappellini primaverili sulle teste di signore sedute intorno a tavole imbandite. Si stava svolgendo in tutto il paese la campagna per l’elezione del nuovo presidente della repubblica: la moglie del candidato ufficiale aveva offerto un tè d’imponenti proporzioni alle mogli dei notabili di Oaxaca. Sotto l’ampia volta vuota, trecento signore messicane conversavano tutte insieme: il grandioso evento acustico che ci aveva subito soggiogato era prodotto dalle loro voci mescolate al tintinnio di tazze e cucchiaini e coltelli che trinciavano fette di torta. Un gigantesco ritratto a colori di signora dal viso rotondo, i capelli neri e lisci tirati, un vestito azzurro di cui si vedeva solo il colletto abbottonato, non dissimile insomma dall’effige ufficiale del Presidente Mao Tse Tung, sovrastava l’assemblea. Per raggiungere il patio e di lì la nostra scala dovevamo farci largo tra i tavolini del ricevimento; già eravamo vicini all’uscita quando da uno dei deschi in fondo alla sala una delle poche figure maschili presenti s’alzò e ci venne incontro a braccia levate. Era il nostro amico Salustiano Velazco, personalità rappresentativa del nuovo staff presidenziale e in tale veste partecipante alle fasi più delicate della campagna elettorale. 

Non lo vedevamo da quando avevamo lasciato la capitale, e per manifestarci con tutta la sua esuberanza la gioia d’averci rincontrato e informarsi delle ultime tappe del nostro viaggio (e forse anche per sottrarsi un momento a quell’atmosfera in cui il predominio trionfale delle donne metteva in crisi la sua cavalleresca certezza nella supremazia maschile) lasciò il suo posto d’onore al convito per accompagnarci nel patio. Cominciò, più che a informarsi di quanto avevamo visto, a segnalarci quello che certamente avevamo mancato di vedere nei posti dove eravamo stati, e che avremmo potuto vedere solamente se ci fossimo stati con lui: uno schema di conversazione che gli appassionati conoscitori d’un paese si sentono obbligati ad applicare con gli amici in visita, sempre con le migliori intenzioni, ma che comunque riesce a guastare il piacere di chi è reduce da un viaggio e tutto fiero delle sue piccole o grandi esperienze. Il fragore conviviale dell’autorevole gineceo ci raggiungeva anche nel patio e copriva almeno metà delle parole dette da noi e da lui, cosicché non ero mai sicuro che egli non ci stesse rimproverando di non aver visto cose che gli avevamo appena detto d’aver visto. 

«E oggi siamo stati a Monte Albàn…» mi affrettai a comunicargli alzando la voce, «… le gradinate, i bassorilievi, gli altari dei 99 sacrifici…» Salustiano portò una mano alla bocca per poi sollevarla a mezz’aria, gesto che in lui testimoniava d’un’emozione troppo grande per essere espressa a parole. Cominciò a darci dettagli archeologici ed etnografici che mi sarebbe piaciuto molto poter seguire frase per frase, ma che si perdevano nel rimbombo dell’agape. Dai gesti e da parole sparse che riuscivo a cogliere, «sangre… obsidiana… divinidad solar…» capivo che stava parlando dei sacrifici umani, e lo faceva con un misto di partecipazione ammirata e di sacro orrore, atteggiamento che si distaccava da quello del rozzo cicerone della nostra gita per una maggiore consapevolezza delle implicazioni culturali che vi erano coinvolte. Fu allora che Olivia, che più pronta di me riusciva a seguire meglio la loquela di Salustiano, interloquì domandandogli qualcosa; compresi che gli ripeteva la stessa domanda che aveva fatto quel pomeriggio ad Alonso, «quello che gli avvoltoi non si portavano via… come finiva?» Gli occhi di Salustiano rivolsero a Olivia scintillii d’intesa e anch’io compresi allora l’intenzione che c’era dietro alla sua domanda, tanto più che Salustiano assunse il suo tono confidenziale, complice, ma sembrava che proprio perché più sommesse le sue parole superassero più facilmente la siepe di rumore che ci divideva. «Chissà… I sacerdoti… Anche questo faceva parte del rito… Per la verità se ne sa poco… Erano cerimonie segrete… Sì, il pasto rituale… Il sacerdote assumeva le funzioni del dio… quindi la vittima, cibo divino…» Era dunque a fargli ammettere questo che voleva arrivare, Olivia? Insisteva ancora: «Ma come avveniva, il pasto…?» «Ripeto, sono solo supposizioni… Pare che anche i principi, i guerrieri, partecipassero… La vittima era già parte del dio, trasmetteva la forza divina…» 

A questo punto Salustiano cambiava tono, diventava fiero, drammatico, s’esaltava: «Solo il guerriero che aveva catturato il prigioniero sacrificato non poteva toccare la sua carne… Stava in disparte, piangendo…» Olivia non sembrava ancora soddisfatta: «Ma questa carne, per mangiarla, la cucina, la cucina sacra, il modo di prepararla, i sapori, se ne sa qualcosa?» Salustiano s’era fatto pensieroso. Le banchettanti avevano raddoppiato i clamori e Salustiano adesso sembrava diventato ipersensibile al rumore: si batteva le orecchie col dito, faceva segno che con quel chiasso non poteva continuare. «Sì, dovevano esserci delle regole… Certo era un cibo che non poteva essere ingerito senza uno speciale cerimoniale… gli onori che merita… per rispetto dei sacrificati che erano giovani valorosi… per rispetto degli dèi… carne che non si può mangiare tanto per mangiare, come un’altra vivanda qualsiasi… E il sapore…» «Dicono che non sia buona da mangiare…?» «Un sapore strano, dicono…» «Ci saranno voluti dei condimenti… roba forte…» «Forse quel sapore doveva essere nascosto… Tutti i sapori dovevano essere chiamati a raccolta per coprire quel sapore…» E Olivia: «Ma i sacerdoti… sulla cucina… non hanno lasciato scritto… tramandato…?» Salustiano scuoteva il capo: «Mistero… la loro vita era circondata dal mistero…» E Olivia, Olivia sembrava fosse lei adesso a suggerire a lui: «Forse quel sapore veniva fuori comunque… anche in mezzo ad altri sapori…» Salustiano parlava con le dita posate sulle labbra come a filtrare quello che stava dicendo: «Era una cucina sacra… doveva celebrare l’armonia degli elementi raggiunta attraverso il sacrifìcio, un’armonia terribile, fiammeggiante, incandescente…» Ammutolì improvvisamente, quasi sentendo d’esser andato troppo in là e, come se il pensiero del banchetto l’avesse richiamato al dovere, s’affrettò a scusarsi di non poter restare di più con noi, perché doveva riprendere posto al suo tavolo. 

Aspettando che venisse giù la sera ci sedemmo a uno dei caffè sotto i portici dello zócalo,  la piazzetta quadrata che è il cuore d’ogni vecchia città della colonia, verde di bassi alberi ben potati chiamati almendros  ma che non somigliano affatto ai mandorli. Le bandierine di carta e gli striscioni che salutavano il candidato ufficiale facevano del loro meglio per comunicare allo zócalo un’aria di festa. Le buone famiglie di Oaxaca passeggiavano sotto i portici. Gli hippies americani aspettavano la vecchia che forniva il mezcal.  Venditori ambulanti cenciosi dispiegavano al suolo tessuti colorati. Da una piazza vicina giungeva l’eco dei megafoni d’uno sparuto comizio d’opposizione. Accoccolate per terra, grosse donne friggevano tortillas ed erbe. Nel chiosco in mezzo alla piazza suonava l’orchestra riportandomi ricordi rassicuranti delle sere in un’Europa provinciale e familiare che avevo fatto in tempo a vivere e a dimenticare. Ma il ricordo era come un «trompe l’oeil» e per poco che osservassi meglio mi dava un senso di distanza moltiplicata, nello spazio e nel tempo. Gli orchestrali, nerovestiti e incravattati, con le scure facce indie impassibili, suonavano per i turisti multicolori e sbracati, come abitanti d’una perpetua estate, comitive di vecchi e vecchie finti giovani in tutto lo splendore delle loro dentiere, e per gruppi di giovani ricurvi e meditabondi, come in attesa che la canizie venisse a imbiancare le loro barbe bionde e i capelli fluenti, infagottati in ruvidi panni, affardellati di bisacce come negli antichi calendari apparivano le figure allegoriche dell’inverno.  

«Forse i tempi sono giunti alla fine, il sole s’è stancato di sorgere, Cronos senza vittime da divorare muore d’estenuazione, le età e le stagioni sono sconvolte». «Forse la morte del tempo riguarda solo noi», rispose Olivia, «noi che ci sbraniamo facendo finta di non saperlo, facendo finta di non sentire più i sapori…» «Vuoi dire che i sapori… che qui hanno bisogno di sapori più forti perché sanno… perché qui mangiavano…» «Tal quale da noi anche ora… Solo che noi non lo sappiamo più, non osiamo guardare, come facevano loro… per loro non c’erano mistificazioni, l’orrore era lì, sotto i loro occhi, mangiavano fino a che restava un osso da spolpare, e per questo i sapori…» «Per nascondere quel sapore?» dissi, riprendendo la catena delle ipotesi di Salustiano. «Forse non si poteva, non si doveva nasconderlo… Altrimenti era come non mangiare quel che si mangiava… Forse gli altri sapori avevano la funzione d’esaltare quel sapore, di dargli uno sfondo degno, di fargli onore…» A tali parole sentii di nuovo il bisogno di guardarla nei denti, come già m’era avvenuto durante la discesa in jeep. Ma in quel momento dalle sue labbra s’affacciò la lingua umida di saliva, e subito si ritrasse, come se lei stesse assaporando qualcosa mentalmente. 

Compresi che Olivia stava già immaginando il menu della cena. S’apriva, questo menu, - quale ci fu offerto da un ristorante che trovammo tra basse case dalle inferriate flessuose - con una bevanda rosa in un bicchiere di vetro soffiato a mano: sopa de camarones ossia zuppa di gamberi, piccante oltremisura per una qualità di chiles  che finora non avevamo sperimentato, forse i famosi chiles jalapeños.  Poi cabrito,  capretto arrosto, di cui ogni boccone provocava sorpresa perché i denti ora incontravano un frammento croccante ora uno che si scioglieva in bocca. «Non mangi?» mi chiese Olivia che sembrava concentrata solo nel gustare il suo piatto ed era invece come al solito attentissima, mentre io ero rimasto assorto guardandola. Era la sensazione dei suoi denti nella mia carne che stavo immaginando, e sentivo la sua lingua sollevarmi contro la volta del palato, avvolgermi di saliva, poi spingermi sotto la punta dei canini. Ero seduto lì davanti a lei ma nello stesso tempo mi pareva che una parte di me, o tutto me stesso, fossi contenuto nella sua bocca, stritolato, dilaniato fibra a fibra. Situazione non completamente passiva in quanto mentre venivo masticato da lei sentivo anche che agivo su di lei, le trasmettevo sensazioni che si propagavano dalle papille della bocca per tutto il suo corpo, che ogni sua vibrazione ero io a provocarla: era un rapporto reciproco e completo che ci coinvolgeva e travolgeva. 

Mi ricomposi; ci ricomponemmo. Gustammo con attenzione l’insalata di tenere foglie di fico d’India bollite (ensalada de nopalitos) condita con aglio, coriandolo, peperoncino, olio e aceto; poi il roseo e cremoso dolce di maguey (varietà d’agave), il tutto accompagnato da una caraffa di tequila con sangrita  e seguito da caffè con cannella. Ma questo rapporto tra noi stabilito esclusivamente attraverso il cibo, tanto da non identificarsi in altra immagine che in quella di un pasto, questo rapporto che nelle mie fantasticherie facevo corrispondere ai più profondi desideri d’Olivia, in realtà non le garbava affatto, e il suo fastidio doveva trovar sfogo durante quella stessa cena. «Come sei noioso, monotono», cominciò a dire, riprendendo una sua polemica contro il mio temperamento poco comunicativo e la mia abitudine d’affidare interamente a lei il compito di tener viva la conversazione, polemica che si riaccendeva soprattutto quando ci trovavamo a quattr’occhi a un tavolo di ristorante, con requisitorie articolate in capi d’accusa dei quali non potevo non riconoscere i fondamenti di verità ma in cui pure individuavo le ragioni basilari della nostra coesione di coppia: cioè che Olivia vedeva e sapeva cogliere e isolare e definire rapidamente molte più cose di me e perciò il mio rapporto col mondo passava essenzialmente attraverso di lei. «Sei sempre sprofondato in te stesso, incapace di partecipare a ciò che ti circonda, a spenderti per il prossimo, senza mai un guizzo d’entusiasmo di tuo e pronto sempre a raffreddare quello degli altri, scoraggiante, indifferente», e nell’inventario dei miei difetti stavolta aggiunse un aggettivo nuovo, o tale da caricarsi ai miei orecchi d’un nuovo significato: «insipido!» Ecco, ero insipido, pensai, e la cucina messicana con tutta la sua audacia e fantasia era necessaria perché Olivia potesse cibarsi di me con soddisfazione; i sapori più accesi erano il complemento, anzi il mezzo di comunicazione indispensabile come un altoparlante che amplifica i suoni perché Olivia potesse nutrirsi della mia sostanza. 

«Può darsi che io ti sembri insipido», protestai, «ma ci sono gamme di sapori più discrete e contenute di quella dei peperoncini, ci sono aromi sottili che bisogna saper cogliere!» «La cucina è l’arte di dar rilievo ai sapori con altri sapori», replicò Olivia, «ma se la materia prima è scipita, nessun condimento può rialzare un sapore che non c’è!» L’indomani Salustiano Velazco volle accompagnarci lui a visitare certi scavi recenti, non ancora battuti dai turisti. Una statua di pietra s’elevava appena dal livello del suolo, con la sagoma caratteristica che avevamo imparato a riconoscere fin dai primi giorni delle nostre peregrinazioni archeologiche messicane: il chac-mool,  figura umana semisdraiata, in posa quasi etrusca, che regge un vassoio posato sul ventre; sembra un bonario, rozzo pupazzo, ma è su quel vassoio che venivano offerti al dio i cuori delle vittime. «Messaggero degli dèi: cosa vuol dire?» chiesi io che avevo letto quella definizione su una guida. «È un dèmone mandato sulla terra dagli dèi a prendere il piatto delle offerte? O è un emissario degli uomini che deve andare incontro agli dèi e porgere loro il cibo?» «Chissà…» rispose Salustiano con l’aria sospesa che assumeva di fronte ai quesiti irresolubili, come ascoltando le voci interiori di cui disponeva quali manuali di consultazione della sua scienza. «Potrebbe essere la vittima stessa, supina sull’altare, che offre le proprie viscere sul piatto… O il sacrificatore che assume la posa della vittima perché sa che domani toccherà a lui… Senza questa reversibilità il sacrificio umano sarebbe impensabile… tutti erano potenzialmente sacrificatori e vittime… la vittima accettava d’essere vittima perché aveva lottato per catturare gli altri come vittime…» «Potevano essere mangiati perché erano loro stessi mangiatori d’uomini?» aggiungo io, ma Salustiano sta ormai parlando del serpente come simbolo di continuità della vita e del cosmo. Io avevo capito, intanto. 

Il mio torto con Olivia era di considerarmi mangiato da lei, mentre dovevo essere, anzi ero (ero sempre stato) colui che la mangiava. La carne umana di sapore più attraente è quella di chi mangia carne umana. Solo nutrendomi voracemente d’Olivia non sarei più riuscito insipido al suo palato. Con questo proposito mi sedetti con lei a cena, quella sera. «Ma che hai? Sei strano stasera», disse Olivia a cui non sfuggiva mai nulla. Il piatto che ci avevano servito si chiamava gorditas pellizcadas con manteca,  letteralmente «paffutelle pizzicate al burro». Io m’immedesimavo a divorare in ogni polpetta tutta la fragranza d’Olivia attraverso una masticazione voluttuosa, una vampiresca estrazione di succhi vitali, ma m’accorgevo che in quello che doveva essere un rapporto tra tre termini, io-polpetta-Olivia, s’inseriva un quarto termine che assumeva un ruolo dominante: il nome delle polpette. Era il nome «gorditas pellizcadas con manteca» che io gustavo soprattutto e assimilavo e possedevo. Tanto che la magia del nome continuò ad agire su di me anche dopo il pasto, quando ci ritirammo insieme nella nostra camera d’albergo, nella notte. 

E per la prima volta durante il nostro viaggio in Messico l’incantesimo di cui eravamo rimasti vittime fu rotto e l’ispirazione che aveva favorito i momenti migliori della nostra convivenza tornò a visitarci. Ci ritrovammo il mattino seduti nel nostro letto in posa da chac-mool con sul viso l’espressione atona delle statue di pietra e sulle ginocchia il vassoio dell’anonima colazione alberghiera cui cercavamo d’aggiungere sapori locali chiedendo che fosse accompagnata con mangos, papayas, chirimoyas, guayabas,  frutti che celano nella dolcezza della polpa sottili messaggi d’asperità e agritudine. Il nostro viaggio si spostò nei territori dei Maya. I templi di Palenque emergono dalla selva tropicale, sovrastati da fitte montagne vegetali: enormi fìcus dai tronchi multipli come radici, maculìs dalle fronde color lillà, aguacates,  ogni albero avvolto in un mantello di liane e rampicanti e piante pendule. Fu scendendo per l’erta scalinata del Tempio delle Iscrizioni che mi prese una vertigine. Olivia, che non amava le scale, non aveva voluto seguirmi ed era rimasta confusa nella folla di comitive chiassose di suoni e colori che i torpedoni scaricavano e ingurgitavano di continuo nello spiazzo tra i templi. Da solo m’ero inerpicato al Tempio del Sole, fino al bassorilievo del Sole-giaguaro, al Tempio della Croce Fogliata, fino al bassorilievo del quetzàl (colibrì) di profilo, poi al Tempio delle Iscrizioni, che non comporta solo una scalata (e relativa discesa) della gradinata monumentale, ma anche la discesa nel buio (e relativa risalita) della scaletta che porta alla cripta sotterranea. 

Nella cripta c’è la tomba del re-sacerdote (che avevo già potuto osservare molto più comodamente pochi giorni prima in un perfetto facsimile al Museo d’Antropologia di Città del Messico) con la lastra di pietra scolpita complicatissima in cui si vede il re manovrare un macchinario da fantascienza che ai nostri occhi sembra di quelli che servono a lanciare i razzi spaziali e invece rappresenta la discesa del corpo agli dèi sotterranei e la rinascita nella vegetazione. Discesi, risalii alla luce del sole-giaguaro, nel mare di linfa verde delle foglie. Il mondo vorticò, precipitavo sgozzato dal coltello del re-sacerdote giù dagli alti gradini sulla selva di turisti con le cineprese e gli usurpati sombreros a larghe tese, l’energia solare scorreva per reti fittissime di sangue e clorofilla, io vivevo e morivo in tutte le fibre di ciò che viene masticato e digerito e in tutte le fibre che s’appropriano del sole mangiando e digerendo. Sotto la pergola di paglia d’un ristorante in riva a un fiume, dove Olivia m’aveva atteso, i nostri denti presero a muoversi lentamente con pari ritmo e i nostri sguardi si fissarono l’uno nell’altro con un’intensità di serpenti. Serpenti immedesimati nello spasimo d’inghiottirci a vicenda, coscienti d’essere a nostra volta inghiottiti dal serpente che tutti ci digerisce e assimila incessantemente nel processo d’ingestione e digestione del cannibalismo universale che impronta di sé ogni rapporto amoroso e annulla i confini tra i nostri corpi e la sopade frijoles, lo huacinango a la veracruzana,  le enchiladas

(Italo Calvino, Sotto il sole giaguaro, 1986)

martedì 6 dicembre 2022

Di spazi bianchi e di montagne

Terra Australis Incognita, Jodocus Hondt, 1618
Fin da ragazzino sono stato appassionato di geografia, una materia che oggi si insegna poco e si padroneggia ancor meno. Mi regalarono un mappamondo per la Prima Comunione e ricordo che senza sforzo mi imparai la morfologia della Terra e tutte le capitali del mondo di più di cinquant'anni fa, che recitavo volentieri a ogni occasione ad amici e parenti. 

Qualche anno dopo, ormai quasi adolescente, non ebbi pace finché non convinsi i miei genitori a regalarmi per Natale un grande atlante del mondo - l'Atlante Internazionale del Touring Club Italiano - pieno di carte ad alta risoluzione che compulsavo avidamente, cercando di intravedere la realtà delle terre che rappresentavano.

Ma ero affascinato anche dagli atlanti "muti", quelli con le cartine prive di riferimenti e nomi. Mi attraevano in particolare quegli spazi bianchi che facevano sembrare il nostro pianeta un luogo completamente da scoprire; infatti una delle mie passioni è sempre stata quella di andare in giro per scoprire nuovi posti, luoghi che io non avevo mai visto anche se stavano vicino a casa.

Per diversi anni abbiamo avuto in affitto una casa a Vagliano di Montemurlo, a due passi dalla villa del Barone; una grande colonica costruita ai primi del Settecento che faceva parte dei tenimenti della fattoria di Parugiano e che era stata abbandonata negli anni Sessanta del secolo scorso dalla famiglia contadina che ci viveva e ci lavorava, attratta come tante altre dalla comodità della vita nella piana e dai maggiori guadagni del lavoro in fabbrica.
Carta della parte settentrionale della Toscana, 1781
La mia famiglia, insieme ad altre tre - anche loro residenti in città ma come la mia nostalgiche della campagna dalla quale tutti i nostri vecchi provenivano - ai primi degli anni Settanta aveva fatto un percorso inverso, prendendo in affitto per pochi soldi la casa dalla fattoria di Parugiano. Ci passavamo il fine settimana e le vacanze estive e ci facevamo feste con gli amici; ricordo che in un'occasione fu utilizzata anche per un affollatissimo festeggiamento di nozze.

La casa era stata rimessa a posto da noi con vari lavori, alcuni anche di discreto impegno. In particolare ricordo la costruzione di un acquedotto con tanto di grande deposito per dotare la casa di acqua corrente e il rinforzo del pavimento del grande fienile al piano superiore - trasformato in salone delle feste - con l'uso di due longarine di acciaio. In breve la casa e il podere intorno diventarono il luogo delle mie scorribande di bambino e ragazzo, spesso insieme al mio babbo, gran cacciatore, pescatore e raccoglitore di tutto ciò che di utilizzabile o commestibile si poteva trovare nei boschi e nelle campagne. 
Monti Sagro e Grondilice, cartolina di fine Ottocento
Con lui andavo in giro nel circondario; queste nostre uscite le chiamavamo "esplorazioni" e sento ancora la passione che avevo nell'andare con lui in luoghi anche banali ma che avevano per me il gusto del mai visto, della Terra Incognita. Perché se c'è una cosa che fin da piccolo ho sempre saputo, anche senza poterlo spiegare a parole, è che tutti noi, volenti o nolenti, siamo degli esploratori destinati ad avventurarsi in terre sconosciute.

Una famosa massima di Lao Tzu afferma che ogni lungo viaggio comincia da un singolo passo; e in questa luce ho sempre visto la nostra esistenza. Noi attraversiamo gli spazi bianchi delle mappe del mondo che ci circonda e le riempiamo con l'esperienza del nostro passaggio. L'atlante "muto" è anche quello della strada dove non sono stato, della città dove non sono passato, dell'esperienza che non ho ancora vissuto.

Gli spazi bianchi rappresentano per me il mistero e il tesoro dell'esistenza, l'emozione e la meraviglia di scoprire, sperimentare, vivere. Mi sono sempre sentito un Magellano inviato ad attraversare le vaste regioni del mondo che mi circonda, per colorare il bianco delle mappe mute con le tinte della conoscenza. Questo atteggiamento non mi ha mai abbandonato, e ancora mi ricorda quel bambino che esplorava il mondo per emozionarsi davanti a un posto nuovo, fantasticando sempre di partire verso altre destinazioni. 
Il Monte Rosa a Macugnaga, A. Calame, 1860 circa
C'è da sempre un luogo che per me riassume il senso di questa esperienza, un luogo che dà la migliore illusione della conoscenza: la vetta di una montagna. Raggiungerne la cima per abbracciare con lo sguardo l'orizzonte, condensando intere regioni nello spazio di un'occhiata è la quintessenza dell'esplorazione. 

Nel momento in cui per la prima volta raggiunsi insieme al mio babbo la croce metallica della Retaia mi resi conto sia della vastità del mondo che mi circondava sia della bellezza che questa vastità comunicava ai miei occhi. E l'emozione che nasceva in quel momento dalla consapevolezza di accedere a un universo immensamente più grande delle poche strade in cui fino a quel momento ero vissuto generò una sensazione duplice: l'orgoglio di essere giunto fin lì e la necessità di andare oltre.

Fino a comprendere molti anni dopo, come nella poesia di Kavafis, che il senso del nostro viaggio non sta nella meta - o nelle mete - che ci troviamo a voler raggiungere, ma nel percorso che facciamo per arrivarci...

"Να εύχεσαι νάναι μακρύς ο δρόμος..."

giovedì 4 novembre 2021

Due prediche sull'Inferno di James Joyce tradotte da Cesare Pavese

James Joyce è stato uno dei più importanti letterati del Novecento. Non ha scritto moltissimo: in tutta la sua vita ha pubblicato solo tre romanzi, una raccolta di sedici racconti, tre raccolte di poesie e un'opera teatrale. I due brani che ho estrapolato in questo mio articolo vengono dal suo primo romanzo pubblicato a New York nel 1916 dopo una lunga gestazione iniziata nel 1904, intitolato in originale Ritratto dell'artista da giovane, che nel 1933 il traduttore Cesare Pavese volle cambiare - prendendo spunto dal nome del protagonista - in Dedalus.

Dedalus è un romanzo "di formazione", autobiografico, che racconta la presa di coscienza del protagonista dall'infanzia agli anni del collegio, fino alla decisione di abbandonare l'Irlanda. Il protagonista è Stephen Dedalus, l'alter ego di Joyce dal duplice nome che richiama da un lato la tradizione cristiana - Santo Stefano è il primo cristiano che ha sacrificato la propria vita per testimoniare la propria fede in Cristo e per la diffusione del Vangelo - e dall'altro il pagano Dedalo, architetto, scultore, inventore, costruttore del Labirinto che imprigionò il Minotauro. 

Entrambi - ciascuno a suo modo - personaggi mitologici: e proprio per questo si tratta di un nome programmatico, che racchiude l'evoluzione dell'autore, da studente ad Artista, da conformista a rivoluzionario, che per sfuggire a una società opprimente sceglie la strada odisseica del silenzio, dell’esilio e dell’astuzia.

Il libro può essere idealmente suddiviso in cinque parti, scandite da differenze stilistiche che evolvono in modo via via più complesso, in modo da mimare stilisticamente la presa di coscienza che l'Autore ha di sé. Il punto di svolta - o se vogliamo, il punto di rottura - è il ritiro spirituale a cui Stephen partecipa, e durante il quale ascolta due prediche sull'Inferno e l'Eternità che ben rappresentano il tumulto interiore del protagonista.

Le due lunghe omelie del Padre gesuita condannano senza appello tutte le passioni carnali dell’uomo, per ritrovare, secondo la sua visione, un più profondo senso della realtà: ma le immagini infernali, insieme così terribili e così banali, sono impietosamente riportate da Joyce, a rimarcare da quali prove la sua coscienza abbia dovuto passare prima di potersi liberare dalle catene del conformismo.

In tutto questo, le prediche del Padre gesuita, tradotte da Cesare Pavese, restano un esempio di grande letteratura, una scrittura di assoluta maestria tradotta con indiscutibile bravura. Un Artista, tradotto da un Artista, crea sempre un risultato sorprendente: e proprio per questo ve lo voglio riproporre, qui.


Prima predica
"L'inferno ha spalancato l'anima e aperto la sua gola smisuratamente": parole queste, miei cari giovani fratelli in Gesù Cristo, del libro di Isaia, capitolo quinto, verso quattordicesimo. Nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Amen.

Adamo ed Eva, miei cari ragazzi, furono, come sapete, i nostri progenitori e ricorderete che Dio li creò allo scopo che i seggi del paradiso, lasciati vuoti alla caduta di Lucifero e dei suoi angeli ribelli, si tornassero a riempire. Si dice che Lucifero fosse un figlio del mattino, un angelo radioso e potente; eppure cadde: cadde e caddero con lui una terza parte delle schiere celesti: cadde e venne precipitato dell'inferno, insieme coi suoi angeli ribelli.

James Joyce da giovane  

Quale che fosse il suo peccato non sappiamo. I teologi pensano che fosse il peccato di orgoglio, il pensiero colpevole concepito per un attimo: non serviam: non servirò. Quest'attimo fu la sua rovina. Egli offese la maestà di Dio col pensiero colpevole di un attimo e Dio per sempre lo cacciò dal cielo nell'inferno.

Adamo ed Eva furono allora creati da Dio e collocati nell'Eden, nella pianura di Damasco, in quello stupendo giardino risplendente di sole e di colori, pieno a traboccare di una vegetazione lussureggiante. La terra fruttuosa dava loro della sua abbondanza; animali e uccelli erano loro docili servi; non conoscevano i mali che affliggono la nostra carne, malattie, povertà e morte; tutto ciò che un Dio grande e generoso poteva fare per essi, era stato fatto. Ma c'era una condizione imposta loro da Dio: l'obbedienza alla Sua parola. Non dovevano mangiare il frutto dell'albero proibito.

Cesare Pavese negli anni Trenta del Novecento
Ahimè, cari ragazzi, anch'essi caddero. Il demonio, l'angelo risplendente, il figlio del mattino di un tempo, ed ora un sozzo demonio, venne sotto la forma di un serpente, il più astuto di tutti gli animali della campagna. Li invidiava, Egli, il grande caduto, non poteva reggere al pensiero che l'uomo, un essere di fango, dovesse possedere il retaggio che lui col suo peccato aveva perduto per sempre. Se ne venne dalla donna, il vaso più debole, e le versò il veleno della sua eloquenza in un orecchio, promettendole - oh la bestemmia di quella promessa! - che se lei e Adamo mangiavano del frutto proibito, sarebbero diventati come dèi, anzi come Iddio stesso.

Eva cedette alle lusinghe dell'arcitentatore. Mangiò il pomo e ne diede ad Adamo, che non ebbe il coraggio morale di resisterle. La lingua velenosa di Satana aveva compiuto la sua opera. Essi caddero. E allora nel giardino si sentì la voce di Dio, che chiamava alla resa dei conti la Sua creatura. l'uomo: e Michele, il principe delle schiere celesti, con una spada di fiamma nella mano, apparve dinanzi alla coppia colpevole e la cacciò dall'Eden nel mondo, in questo mondo di mali e di lotte, di crudeltà e d'inganni, di fatiche e di privazioni, a guadagnarsi il pane col sudore della fronte.

Inferno, Dieric Bouts 1450
Ma anche allora, quanto non fu misericordioso Iddio! Ebbe pietà dei nostri poveri genitori decaduti e promise che a tempo opportuno avrebbe mandato dal cielo Uno che li avrebbe redenti, che li avrebbe rifatti figli di Dio ed eredi del regno dei cieli: e quest'Uno, questo Redentore dell'uomo caduto, sarebbe stato il Figlio unigenito di Dio, la Seconda Persona della Santissima Trinità, il Verbo Eterno.

Egli venne. Nacque da una vergine pura, Maria, la vergine madre. Nacque in una povera stalla della Giudea e visse da umile falegname per trent'anni, finché non fu venuta l'ora della sua missione. E allora, pieno d'amore per gli uomini, uscì e chiamò gli uomini a sentire la nuova parola di Dio. E gli uomini l'ascoltarono? Sì, l'ascoltarono, ma non vollero sentirlo. Venne preso e legato come un volgare delinquente, beffeggiato come un pazzo, posposto a un pubblico ladrone, flagellato con cinquemila sferzate, incoronato di una corona di spine, cacciato per le vie dalla plebaglia ebraica e dalla soldatesca romana, spogliato dei suoi abiti e appeso su un patibolo e Gli trapassarono il fianco con una lancia e dal corpo ferito di Nostro Signore usciva senza tregua acqua e sangue.

Punizione degli accidiosi, Taddeo di Bartolo, 1393

Eppure anche allora, in quel momento di suprema angoscia, il Nostro Redentore Misericordioso ebbe pietà degli uomini. Fu allora, sulla collina del Calvario, che Egli fondò la santa Chiesa cattolica contro cui, come promise, le porte dell'inferno non prevarranno. Egli la fondò sulla rupe dei secoli e la dotò della Sua grazia, con sacramenti e sacrificio, e promise che, se gli uomini avessero ubbidito alla parola della Sua Chiesa, sarebbero ancora entrati nella vita eterna, ma se invece, dopo tutto quanto era stato fatto per loro, persistevano ancora nella loro malvagità, li avrebbe attesi un'eternità di tormenti: l'inferno.

Ora, cerchiamo un momento di rappresentarci, per quanto possiamo, la natura di quella dimora dei dannati che la giustizia di un Dio offeso ha creato dal nulla per il castigo eterno dei peccatori. L'inferno è una prigione angusta, oscura e fetida, una dimora di démoni e anime perdute, piena di fuoco e di fumo. L'angustia di questo carcere è voluta espressamente da Dio  per punire gente che ha rifiutato di stare nelle Sue leggi. Nelle carceri terrene, il disgraziato prigioniero ha almeno qualche libertà di movimento, non fosse che entro i limiti delle quattro pareti della cella o nel cortile tetro della prigione.

Non così all'inferno. Laggiù, causa il gran numero dei dannati, i prigionieri sono ammucchiati l'uno sull'altro nell'orribile carcere, di cui si dice che le pareti siano spesse quattromila miglia: e i dannati sono così completamente legati e impotenti che, come un santo beato, sant'Anselmo, scrive nel suo libro sulle similitudini, non è loro nemmeno possibile di levarsi dall'occhio un verme che lo roda.

Caduta degli angeli ribelli, Andrea Commodi, 1612

Essi giacciono avvolti nelle tenebre. Poiché, ricordàtelo, il fuoco dell'inferno non dà luce. Come, al comando di Dio, il fuoco della fornace in Babilonia perse il calore ma non la luce, così al comando di Dio il fuoco dell'inferno, mentre conserva l'intensità del calore, brucia eternamente nelle tenebre. È una bufera di tenebre senza fine, fiamme buie e fumo buio di zolfo rovente, in cui i corpi sono ammucchiati uno sull'altro, senza nemmeno un filo d'aria. Di tutte le piaghe con cui fu colpita la terra dei Faraoni una piaga soltanto, quella delle tenebre, venne chiamata orrenda. Quale nome dunque dovremo dare alle tenebre dell'inferno che han da durare non tre giorni soltanto, ma per tutta l'eternità?

L'orrore di questa angusta e tenebrosa prigione è accresciuto dal suo tremendo fetore. Tutta l'immondizia del mondo, tutti i rifiuti e le fecce del mondo coleranno, si dice, in quel luogo come in un'immensa cloaca puzzolente, quando la conflagrazione terribile dell'ultimo giorno avrà purgato il mondo. Lo zolfo, inoltre, che vi brucia in quantità così prodigiosa, riempie tutto l'inferno del suo fetore intollerabile; e i corpi stessi dei dannati esalano un odore così pestilenziale che, come dice san Bonaventura, uno solo di essi basterebbe a infettare il mondo intero. Anche l'aria del nostro mondo, questo elemento purissimo, si corrompe e si fa irrespirabile quando stia per molto tempo rinchiusa. Considerate dunque quale dev'essere la corruzione dell'aria infernale.

Immaginate un cadavere immondo e putrido che sia stato a marcire e decomporsi nella tomba, una massa gelatinosa di colante corruzione. Immaginate un cadavere simile fatto preda alle fiamme, divorato dal fuoco dello zolfo ardente, sì che sparga una densa e soffocante fumea di repellente e nauseabonda decomposizione. E poi immaginate questo fetore rivoltante moltiplicato milioni e milioni di volte per i milioni e milioni di carcasse fetide ammassate nella tenebra puzzolente, un enorme fungaccio umano marcito. Immaginate tutto questo e avrete un'idea dell'orrendo fetore dell'inferno.

Caduta degli angeli ribelli, Agostino Fasolato, 1750
Ma questo fetore, per quanto orribile, non è il tormento fisico maggiore a cui sono soggetti i dannati. Il tormento del fuoco è il massimo a cui tiranno abbia mai assoggettato i propri simili. Mettete per un istante il dito sulla fiamma di una candela e sentirete che cos'è il dolore del fuoco. Ma il nostro fuoco terreno venne creato da Dio a beneficio dell'uomo, per mantenere in lui la scintilla della vita e per aiutarlo nelle utili arti, laddove il fuoco dell'inferno è d'una specie ben diversa e venne creato da Dio per torturare e punire il peccatore impenitente. Inoltre il nostro fuoco terreno ha la proprietà di distruggere più o meno rapidamente, a seconda che l'oggetto a cui s'attacca è più o meno combustibile, tanto che l'ingegno umano è persino riuscito a inventare preparati chimici per arrestarne o frustrarne l'azione.

Ma la pietra sulfurea che brucia nell'inferno è una sostanza particolarmente destinata a bruciare e bruciare con una violenza indicibile, per sempre. E ancora, il nostro fuoco terreno distrugge mentre brucia, in modo che tanto è più intenso tanto minore è la sua durata; ma il fuoco dell'inferno possiede la proprietà di preservare ciò che brucia e, sebbene infuri con incredibile intensità, questa sua furia è eterna.

Il nostro fuoco terreno, ancora, per furibondo o diffuso ch'esso sia, è sempre di un'estensione limitata; ma il lago di fuoco dell'inferno è senza limiti, senza rive e senza fondo. Si tramanda che il diavolo stesso, interrogato al riguardo da un certo soldato, fu costretto a confessare che un'intera montagna, gettata nell'oceano ardente dell'inferno, verrebbe divorata in un attimo come un pezzetto di cera. E questo fuoco terribile non tormenterà soltanto dall'esterno i corpi dei dannati, ma ogni anima perduta sarà in se stessa un inferno, infuriandole quel fuoco sfrenato fin dentro le viscere. Oh com'è tremenda la sorte di quegli esseri miserabili! Il sangue si agita e bolle nelle vene, il cervello bolle nel cranio, il cuore arde e scoppia nel petto, le budella sono una massa rovente di polpa accesa e gli occhi molli fiammeggiano come globi in fusione.

Angeli e demoni, Maurits Cornelis Escher, 1960
E pure tutto quello che ho detto sulla violenza, la natura e l'immensità di questo fuoco è meno che nulla, quando lo si confronti con la sua intensità, una intensità che gli è data in quanto esso è lo strumento scelto dalla divina sapienza per il castigo insieme dell'anima e del corpo. È un fuoco che procede direttamente dallo sdegno di Dio, operando non di propria iniziativa, ma come lo strumento della vendetta divina. Come le acque del battesimo detergono l'anima insieme col corpo, così i fuochi del castigo torturano lo spirito insieme con la carne.

Ogni senso della carne viene torturato e, insieme, ogni facoltà dell'anima: gli occhi dalla estrema impenetrabilità delle tenebre, il naso dagli odori insopportabili, le orecchie dalle strida, dalle urla e dalle imprecazioni, il gusto dalla materia immonda, dall'infetta corruzione e dalle innominabili e soffocanti immondizie, il tatto da pungoli e spunzoni roventi, dalle lingue crudeli delle fiamme. E attraverso i diversi tormenti dei sensi, l'anima immortale viene eternamente torturata nella sua stessa essenza, in mezzo a leghe su leghe di fiamme ardenti accese nell'abisso della maestà offesa del Dio Onnipotente e avvivate a una violenza eterna e sempre crescente dall'ira divina.
Tentazione di Sant'Antonio, Joos van Craesbeeck, 1650 

Considerate finalmente che il tormento di questa infernale prigione è accresciuto dalla stessa compagnia dei dannati. Sulla terra una cattiva compagnia è tanto perniciosa che le piante si ritraggono, come per istinto, dalla vicinanza di tutto ciò che per loro è mortale o dannoso. Nell'inferno ogni legge è capovolta: non ci sono pensieri di famiglia o di patria, di legami, di parentela. I dannati si urlano e si vociferano addosso, mentre ogni loro tortura o furore s'intensifica per la presenza di esseri torturati e infuriati come essi. Ogni senso d'umanità si dimentica. Le strida dei peccatori che soffrono riempiono gli angoli più remoti di bestemmie contro Dio, di odio per i compagni di pena e di maledizioni contro le anime dei complici nel peccato. 

Nei tempi antichi, per punire il parricida, l'uomo che aveva levato la mano assassina contro il padre, si usava gettarlo negli abissi del mare in un sacco dove erano un gallo, una scimmia e una serpe. L'intenzione dei legislatori che stabilirono una legge simile, che nei nostri tempi sembra crudele, era di punire il reo con la compagnia di animali inveleniti e feroci. Ma che cos'è la furia di tali bruti senza parola, in confronto con la furia di esecrazione che scoppia dalle labbra screpolate e dalle gole doloranti dei dannati all'inferno, quand'essi nei loro compagni di sventura vedono quelli che li hanno aiutati e istigati nel peccato, quelli che con le parole hanno gettato nelle loro menti il primo seme di cattivi pensieri e di una cattiva vita, e che con allusioni immodeste li hanno condotti al peccato e con gli occhi li hanno tentati e sedotti dal sentiero della virtù? Essi si gettano su questi complici e li vituperano e li maledicono. Ma son privi d'aiuto e di speranza: è troppo tardi ormai per pentirsi. 

La visione di Tungdal, Hieronymus Bosch, 1500
E per ultimo considerate quale spaventevole tormento dev'essere per le anime di quei dannati, tentatori e tentati tutti insieme, la compagnia dei demòni Questi demòni tormenteranno i dannati in due modi, colla loro presenza e coi loro rimproveri. Noi non possiamo avere idea del come siano orribili questi demòni. Santa Caterina da Siena vide una volta un demonio e lasciò scritto che piuttosto di rivedere, anche per un solo istante, un mostro così spaventevole, avrebbe preferito di camminare tutta la vita che ancora le restava sopra un sentiero di carboni ardenti. Questi demòni, che un tempo erano angeli bellissimi, sono diventati tanto brutti e ripugnanti quanto una volta erano belli.

Essi beffano e pigliano in giro le anime perdute che hanno trascinato nella rovina. Sono essi, i sozzi demòni, che nell'inferno fungono da voci della coscienza. Perché hai peccato? Perché hai prestato orecchio alle tentazioni degli amici? Perché hai abbandonato le tue pratiche devote e le tue opere buone? Perché non hai fuggito le occasioni del peccato? Perché non hai lasciato quel cattivo compagno? Perché non hai smesso quella sconcia abitudine, quell'abitudine impudica? Perché non hai ascoltato i consigli del tuo confessore? Perché, anche dopo la prima o la seconda o la terza o la quarta o la centesima caduta, non ti sei pentito della tua vita cattiva e non ti sei rivolto a Dio che attendeva solo il tuo pentimento per assolverti dai tuoi peccati? 

Inferno, Hieronymus Bosch, 1490
Ora il tempo dei pentimenti è passato. Il tempo è, il tempo era, ma il tempo non sarà mai più! C'era un tempo di peccare in segreto, di indulgere a quella tua accidia e a quell'orgoglio, di desiderare l'illecito, di cedere alle tentazioni della tua natura inferiore, di vivere come le bestie dei campi, anzi peggio delle bestie dei campi, perché queste almeno non sono che bruti e non hanno la ragione a guidarle: il tempo era, ma il tempo non sarà più.

Dio ti ha parlato con tanti voci diverse, ma tu non hai voluto sentirlo. Non hai voluto schiacciare quell'orgoglio e quell'ira nel tuo cuore, non hai voluto restituire quei beni male acquistati, non hai voluto ubbidire ai precetti della tua santa Chiesa né osservare i tuoi doveri religiosi, non hai voluto abbandonare quei malvagi compagni, non hai voluto fuggire quelle tentazioni piene di pericoli. Tali sono le parole di quei diabolici aguzzini, parole di beffa e di rimbrotto, parole di odio e di disgusto. 

Plane Filling II, Maurits Cornelis Escher, 1957  

Di disgusto, sì! Poiché persino essi, i demòni, quando peccarono, peccarono di quel peccato che solo era compatibile con le loro angeliche nature, una ribellione dell'intelletto: ed essi, persino, i sozzi demòni, non possono fare a meno di rivoltarsi disgustati dallo spettacolo di quegli innominabili peccati coi quali l'uomo abietto oltraggia e insozza il tempio dello Spirito Santo, insozza e corrompe se stesso.

O miei cari giovani fratelli in Cristo, che non sia mai la nostra sorte udire simili parole! Che non sia mai la nostra sorte, vi ripeto! Prego Dio con tutto il fervore, che nell'ultimo giorno della tremenda resa dei conti non una sola anima di tutte quelle che son oggi in questa cappella si trovi tra quegli esseri miserabili a cui il Grande Giudice ordinerà di partirsi dai suoi occhi; che nessuno di noi possa mai sentirsi risuonare nelle orecchie la paurosa sentenza di condanna: "Via da me, maledetti, nel fuoco eterno che fu preparato per il demonio e i suoi angeli!"

Seconda predica
"Sono respinto dalla vista dei tuoi occhi": parole, queste, miei giovani fratelli in Cristo, del Libro dei Salmi, trentesimo capitolo, verso ventitreesimo. Nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Amen. 

Stamattina ci siamo sforzati, nelle nostre riflessioni sull'inferno, di fare ciò che il nostro santo fondatore chiama, nel suo libro degli esercizi spirituali, la composizione del luogo. Ci siamo cioè sforzati di rappresentarci coi sensi della mente, in fantasia, il carattere materiale di quel luogo spaventoso e dei tormenti fisici sofferti da tutti coloro che ci stanno. Stasera considereremo per qualche minuto la natura dei tormenti spirituali dell'inferno.

Dovete ricordare che il peccato è una doppia scelleratezza. È un'abietta concessione agli stimoli della nostra natura corrotta, agli istinti più bassi, a tutto ciò che è impuro e bestiale ; ed è anche una trasgressione ai consigli della nostra natura più alta, a tutto ciò che è puro e santo, alla santità stessa di Dio. Per questo il peccato mortale è punito nell'inferno con due diversi modi di castigo, quello fisico e quello spirituale.

Il volto della guerra, Salvador Dalì, 1940
Ora, di tutte queste pene spirituali, di gran lunga maggiore è la pena della perdita, tanto grande che in se stessa è un tormento maggiore di ogni altro. San Tommaso, il massimo dottore della Chiesa, colui che chiamano il dottore angelico, dice che la dannazione peggiore consiste in questo, che l'intelletto dell'uomo è totalmente privato della luce divina e la sua affezione ostinatamente respinta dalla bontà di Dio.

Ricordatevi che Dio è un essere infinitamente buono e perciò la perdita di un tale essere sarà una perdita infinitamente dolorosa. In questa vita noi non abbiamo un'idea molto chiara di ciò che deve essere una perdita simile, ma i dannati dell'inferno, per loro maggiore tormento, hanno una piena comprensione di ciò che hanno perduto e comprendono che l'hanno perduto per i loro stessi peccati e che l'hanno perduto per sempre. Nell'istante preciso della morte, gli impacci della carne cadono infranti e l'anima vola immediatamente verso Dio come verso il centro della sua esistenza.

Ricordate, miei cari ragazzi, che le nostre anime anelano a ricongiungersi con Dio. Noi veniamo da Dio, viviamo in Dio, apparteniamo a Dio: noi siamo Suoi, inalienabilmente Suoi. Dio ama di un amore divino ogni anima umana ed ogni anima umana vive in questo amore. Come potrebbe essere altrimenti? 

Ogni respiro che facciamo, ogni pensiero che pensiamo, ogni istante che viviamo, procedono dalla inesauribile bontà di Dio. E se per una madre è un dolore venir divisa dal figlio, per un uomo venir esiliato dalla patria e dal focolare, per l'amico venir strappato all'amico, oh! pensate quale dolore, quale spasimo dev'essere per la povera anima venir scacciata dalla presenza del Creatore supremamente buono e affettuoso, che l'ha fatta nascere dal nulla, l'ha sostenuta nell'esistenza e l'ha amata di incommensurabile amore.

Le Sommeil, Salvador Dalì, 1937
Questo, dunque: venir separata per sempre dal suo bene più grande, da Dio, e sentire lo spasimo di questa separazione, ben sapendo che essa sarà immutabile, questo è il tormento massimo che l'anima creata può soffrire, paena damni, la pena della perdita.

La seconda pena, che affliggerà nell'inferno le anime dei dannati, è la pena della coscienza. Allo stesso modo che nei corpi morti si generano vermi dalla putrefazione, così nelle anime dei perduti sorge un perpetuo rimorso dalla putrefazione del peccato, il pungolo della coscienza, il verme, come lo chiama papa Innocenzo III, dal triplice morso. 

Il primo morso inflitto da questo verme crudele sarà il ricordo dei piaceri passati. Oh, quale ricordo spaventoso non sarò questo! Nel lago delle fiamme che tutto divorano, il superbo re ricorderà le pompe della sua corte; l'uomo sapiente, ma cattivo, le sue biblioteche e i suoi strumenti di ricerca; l'innamorato di piaceri artistici, i suoi marmi, i suoi quadri e i suoi altri tesori d'arte; colui che si deliziava nei piaceri della tavola, i suoi banchetti sfarzosi, i suoi piatti preparati con tanta raffinatezza, i suoi vini scelti; l'avaro ricorderà il cumulo d'oro; il ladrone, la sua ricchezza male acquistata; gli assassini rabbiosi, vendicativi e spietati, i propri fatti di sangue e di violenza in cui esultavano; gli gli impuri e gli adulteri, i sozzi piaceri innominabili in cui si deliziavano.

Ricorderanno tutto questo e avranno orrore di se stessi e dei loro peccati. Infatti, quanto parranno miseri  tutti questi piaceri all'anima condannata a soffrire nel fuoco infernale per secoli e secoli! Quali non saranno la loro rabbia e le loro smanie, al pensiero di aver perduto la felicità del cielo per le scorie della terra, per pochi pezzi di metallo, per vani onori, per la comodità del corpo, per un titillamento di nervi. Si pentiranno, davvero: e questo è il secondo morso del verme della coscienza, un tardo e inutile rimorso dei peccati commessi.

Bullfighting, André Masson, 1937
La divina giustizia vuole fermamente che  l'intelletto di questi miserabili disgraziati sia di continuo fisso ai peccati dei quali essi sono stati colpevoli e inoltre, come osserva sant'Agostino, Dio impartirà loro la Sua stessa comprensione del peccato, in modo che il peccato apparirà a queste anime in tutta la sua orribile malizia, come appare agli occhi di Dio stesso. Essi contempleranno i loro peccati in tutta la loro orrendezza e se ne pentiranno ma sarà troppo tardi, ed allora piangeranno tutte le buone occasioni lasciate sfuggire. 

Questo è l'ultimo, il più profondo e il più crudele morso del verme della coscienza. La coscienza dirà: avevi tempo e opportunità di pentirti e non ti sei pentito. Sei stato allevato religiosamente dai tuoi genitori. Avevi ad aiutarti i sacramenti, la grazia e l'indulgenza della Chiesa. Avevi il ministro di Dio a predicarti la Sua parola, a richiamarti quand'eri uscito di strada, a perdonarti i tuoi peccati, non importa quanti o quanto abbominevoli, se tu soltanto avessi voluto confessarti e pentirtene. 

No. Non ti sei pentito. Hai insultato i ministri della santa religione, hai voltato la schiena al confessionale, ti sei rivoltolato sempre più giù nel pantano del peccato. Dio ti chiamava, ti minacciava, ti supplicava di tornare a Lui. Oh vergogna, oh pietà! Il Re dell'universo supplicava te, creatura di fango, di amarLo, Lui che ti aveva creato, e di osservare la Sua legge. No. Non hai voluto. Ed ora, anche se tu riuscissi a inondare tutto l'inferno con le tua lacrime (posto che tu possa ancora piangere), tutto quel mare di pentimento non ti acquisterebbe ciò che un'unica lacrima di pentimento sincero, versata durante l'esistenza mortale, ti avrebbe acquistato. Tu adesso implori un istante della vita terrena in cui pentirti: inutile. Quel tempo è passato: passato per sempre.

Incubus, Johann Heinrich Füssli, 1781
Tale è il triplice morso della coscienza, la vipera che rode  sino all'intimo il cuore dei miserabili nell'inferno, in modo che, pieni di un furore diabolico, essi maledicono se stessi per la loro follia, maledicono i cattivi compagni che li hanno condotti a una simile rovina, maledicono i demòni che li hanno tentati in vita e ora li beffeggiano nell'eternità e persino giungono a vituperare e maledire l'Essere Supremo, di cui essi hanno sprezzato e trascurato la bontà e la pazienza, ma alla potenza e giustizia del quale non possono sfuggire.

L'altra pena spirituale, cui i dannati sono soggetti, è la pena dell'estensione. L'uomo, in questa esistenza terrena, benché capace di molte sofferenze, non può soffrirle tutte in una volta, dato che ciascuno di questi mali corregge l'altro e gli reagisce, allo stesso modo che sovente un veleno ne corregge un altro. Nell'inferno, al contrario, un tormento, invece di reagire a un altro, gli presta una forza ancora maggiore; e inoltre le facoltà interne, come sono più perfette dei sensi esterni, così sono anche più capaci di sofferenza.

Appunto come ciascun senso è afflitto da un tormento appropriato, così accade di ciascuna facoltà spirituale: la fantasia è afflitta da immagini spaventose, la facoltà sensitiva da desidèri e furie alternate, la mente e l'intelletto da una tenebra interiore più terribile anche delle tenebre eterne che regnano in quell'orrenda prigione. La malizia che, benché impotente, possiede queste anime demoniache è un male di estensione illimitata, di durata infinita: uno spaventevole stato di malvagità che noi possiamo appena comprendere se ci rechiamo in mente tutta l'enormità del peccato e l'odio che Dio gli porta. 

Studio del ritratto di Papa Innocenzo X di Velázquez, Francis Bacon, 1953
Opposta a questa pena dell'estensione, eppure con essa coesistente, abbiamo la pena dell'intensità. L'inferno è il centro di ogni male e, come voi sapete. le cose sono più intense al loro centro che non nei punti più remoti. Non ci sono né contrari né mescolanze di nessuna specie a temperare o addolcire minimamente le pene dell'inferno. Anzi, e cose che in se stesse sono buone, nell'inferno diventano cattive. La compagnia, che altrove è una fonte di conforto agli afflitti, sarà laggiù un tormento continuo; la sapienza, tanto desiderata come il massimo bene dell'intelletto, sarà laggiù odiata più dell'ignoranza: la luce, che tanto anelano tutte le creature, dal re del creato fino alla più umile pianta della foresta, sarà intensamente detestata.

In questa vita i nostri dolori o non sono molto lunghi o non sono molto grandi, perché la nostra natura li vince con l'abitudine oppure li fa finire accasciandosi sotto il loro peso. Ma nell'inferno i tormenti non si possono vincere coll'abitudine, perché, pur essendo di una tremenda intensità, variano nello stesso tempo continuamente, ogni pena infiammandosi, per così dire, a contatto con un'altra e riaccendendo in quella che l'ha attizzata una fiamma ancor più furibonda; e nemmeno soccombendo a tutte queste intense e svariate torture la natura può trovar scampo, perché l'anima viene sostenuta e conservata nel male, affinché la sua sofferenza possa riuscire più grande.

Un'infinita estensione del tormento, un'incredibile intensità di sofferenza, un'incessante varietà di tortura - questo è ciò che domanda la divina maestà tanto oltraggiata dai peccatori, questo è ciò che reclama la santità del cielo trascurata e disdegnata per i vili e peccaminosi piaceri della carne corrotta, questo è ciò che assolutamente pretende il sangue dell'innocente Agnello di Dio, sparso per la redenzione dei peccatori e calpestato dai più infami degli infami.

Guernica (dettaglio), Pablo Picasso, 1937
Ed ultima tortura, che tutte sovrasta le torture di quel luogo spaventevole, è l'eternità dell'inferno. Eternità! Tremenda e terrificante parola. Eternità! Quale mente umana può comprenderla? E, ricordate, si tratta di un'eternità di dolore. Anche se le pene infernali non fossero così terribili come sono, pure diventerebbero infinite, dato che sono destinate a durare per sempre. Ma mentre sono eterne, allo stesso tempo, come voi sapete, sono intollerabilmente intense, insopportabilmente estese. Sopportare anche solo la puntura di un insetto per l'eternità, sarebbe un tormento atroce.

Che cosa deve essere dunque, sopportare per sempre le molteplici torture dell'inferno? Per sempre? Per sempre! Per tutta l'eternità! Non per un anno e non per un secolo, ma per sempre. Cercate di immaginare lo spaventoso significato di questa parola. Avete visto tante volte la sabbia sulla riva del mare. Come son fini i suoi piccoli granelli! E quanti di quei minuti granellini ci vogliono per formare la piccola manciata che un ragazzo stringe giocando. 

Ed ora immaginate una montagna di questa sabbia, alta un milione di miglia, elevata dalla terra fino ai cieli più lontani, larga un milione di miglia, estesa fino agli spazi più remoti e spessa un milione di miglia: immaginate questa enorme massa di innumerevoli particelle di sabbia, moltiplicata tante volte quante sono foglie nelle foreste, gocce d'acqua nel grande oceano, piume sugli uccelli, scaglie sui pesci, peli sugli animali, atomi nella vasta distesa dell'aria, e immaginate che alla fine di ogni milione di anni venga un uccellino a questa montagna e se ne porti via col becco un grano minuto di sabbia.

Saturno che divora i suoi figli, Francisco Goya, 1823
Quanti milioni sopra milioni di secoli passerebbero prima che quest'uccello abbia portato via un solo piede quadrato di questa montagna, quanti cicli su cicli di epoche prima che l'uccello l'abbia portata via tutta. Eppure, finita quest'immensa distesa di tempo, si potrà dire che nemmeno un istante dell'eternità sia passato. E se quella montagna, dopo essere stata portata via tutta, tornasse a levarsi e l'uccello ritornasse e la riportasse via tutta un'altra volta a grano a grano; e se essa sorgesse e scomparisse tante volte quante ci sono stelle nel cielo, atomi nell'aria, gocce d'acqua nel mare, foglie sugli alberi, piume sugli uccelli, scaglie sui pesci, peli sugli animali, alla fine di tutte queste innumerevoli resurrezioni e sparizioni di quella montagna incommensurabilmente grande, non un solo istante dell'eternità si potrebbe dire passato: anche allora, alla fine di una tal durata, dopo quell'infinità di tempo il cui solo pensiero ci fa girare dalle vertigini il cervello, l'eternità sarebbe appena cominciata.

Un santo beato (credo che fosse uno dei nostri padri) ebbe un giorno concessa una visione dell'inferno. Gli pareva di trovarsi nel mezzo di un grande scalone, buio e silenzioso tranne che per il ticchettio di un grande pendolo. Il ticchettio continuava incessante e pareva a questo santo che il suono del ticchettio fosse un'incessante ripetizione delle parole: sempre, mai; sempre, mai.

Margherita la Pazza, Pieter Bruegel, 1561
Sempre essere all'inferno, mai essere in cielo; sempre essere escluso dalla presenza di Dio, mai godere la beatifica visione, sempre venir divorato da fiamme, roso da vermi, stimolato da spuntoni ardenti, mai essere liberato da questi dolori; sempre sentirsi la coscienza nemica, la memoria furibonda, la mente piena di tenebre e di disperazione, mai poter sfuggire; sempre maledire e vituperare i sozzi demòni che osservano con diabolica esultanza la disgrazia dei loro zimbelli, mai contemplare le vesti risplendenti degli spiriti beati; sempre implorare urlando, dal fondo dell'abisso del fuoco, a Dio un istante, un istante solo, di tregua da quelle angosce atroci, mai ricevere, nemmeno per un istante, il perdono da Dio; sempre soffrire, mai godere; sempre essere dannato, mai salvo; sempre, mai; sempre, mai.

Oh, che tremendo castigo! Una eternità d'infinita agonia, d'infinito tormento corporale e spirituale, senza un raggio di speranza, senza un istante di tregua; di un'agonia d'intensità sconfinata, di un tormento di varietà infinita, di una tortura che conserva eternamente ciò ch'eternamente divora, di un'angoscia che stringe per sempre lo spirito mentre strazia la carne: un'eternità in cui ogni istante è esso stesso un'eternità di dolore. Tale è il castigo terribile, decretato per coloro che muoiono in peccato mortale da un Dio onnipotente e giusto.

Opus 1, 1957, Zdzislaw Beksinski
Sì, un Dio giusto! Gli uomini, che ragionano sempre da uomini, si stupiscono che Dio possa commisurare un castigo eterno e infinito nelle fiamme dell'inferno a un solo grave peccato. Essi ragionano così perché sono incapaci di comprendere che anche il solo peccato veniale è di natura così sozza e schifosa che, se anche il Creatore onnipotente potesse porre una fine a tutto il male e la miseria del mondo, alle guerre, alle malattie, ai ladronecci, ai delitti, alle morti, agli assassinii, a condizione di lasciar passare un solo peccato veniale impunito, un solo peccato veniale, una bugia, uno sguardo irritato, un istante di pigrizia volontaria, Egli, il grande Iddio onnipotente, non potrebbe farlo, perché il peccato, sia di pensiero sia di atto, è una trasgressione alla Sua legge e Dio non sarebbe Dio, se non punisse il trasgressore.

Un peccato, un istante di ribelle orgoglio dell'intelletto, fece cadere dalla loro gloria Lucifero e  una terza parte della coorte degli angeli. Un peccato, un istante di debolezza, cacciò Adamo ed Eva dall'Eden e portò la morte e il dolore nel mondo. Per riscattare le conseguenze di quel peccato il Figlio unigenito di Dio venne in terra, visse, offrì e morì di un'atroce morte, appeso per tre ore alla croce.

O miei giovani fratelli in Cristo, vorremmo noi dunque offendere quel buon Redentore e provocare la Sua ira? Vorremmo calpestare ancora quel cadavere straziato e sfigurato? Vorremmo sputare su quel volto così pieno di tristezza e amore? Vorremmo anche noi, come gli Ebrei crudeli e i soldati brutali, beffare quel Salvatore gentile e pietoso, che affrontò, tutto solo, per amor nostro, il terribile torchio del dolore? Ogni parola peccaminosa è una spina che gli punge il capo. Ogni pensiero impuro, a cui si ceda deliberatamente, è una lancia acuminata che trafigge quel cuore sacro e amoroso. No, no. È impossibile che un qualunque essere umano faccia ciò che offende così profondamente la Maestà divina, ciò che è punito con un'eternità di tormenti, ciò che torna a crocifiggere il Figliuolo di Dio e fa di lui un oggetto di irrisione.

Autumn Rhythm n. 30, Jackson Pollock, 1950
Prego Iddio affinché le mie povere parole abbiano potuto giovare oggi a confermare nella santità quelli che sono in uno stato di grazia, a fortificare quelli che vacillano, a ricondurre nello stato di grazia la povera anima che si è sviata, se una è tra di voi. Prego Dio, e voi pregate con me, che noi possiamo pentirci dei nostri peccati. Vi chiedo ora, a tutti lo chiedo, di ripetere con me l'atto di contrizione, inginocchiandoci qui in quest'umile cappella alla presenza di Dio.

Egli è là nel tabernacolo, ardente di amore per l'umanità, pronto a consolare gli afflitti. Non abbiate paura. Non importa quanti peccati abbiate commessi o quanto odiosi essi siano: basta che voi vi pentiate, essi vi saranno perdonati. Nessun rispetto umano vi trattenga. Iddio è sempre il Signore misericordioso che non vuole la morte eterna del peccatore, ma piuttosto che egli si converta e viva. Egli vi chiama a Sé. Voi siete Suoi. Via ha fatti dal nulla. Via ha amati come soltanto un Dio può amare. Le Sue braccia sono aperte a ricevervi, anche se voi avete peccato contro di Lui. Vieni a Lui, povero peccatore, povero vano errabondo peccatore. È il momento propizio. È l'ora."

Da Dedalus, ritratto dell'artista da giovane di James Joyce, traduzione di Cesare Pavese (1933), edizioni Adelphi